Se, come scriveva Peter Weiss, nel celebre e controverso discorso
Laocoonte o Dei limiti della lingua, tenuto in occasione della consegna
del Lessing-Preis nel 1965, “in principio erano le immagini”, sono
immagini di tristezza quelle abitano questi nostri mestissimi giorni.
Quattro
morti fra venerdì e domenica, crudeli come tutte le morti, forse anche
di più. La prima a morire, alle 11,30 del mattino di venerdì, Fakhra
Younas, ex ballerina pakistana diventata poi simbolo della lotta delle
donne sfregiate con l'acido, che si è gettata da una finestra del sesto
piano della palazzina di Tor Pagnotta, a Roma, dove viveva o meglio
conviveva con la disperazione di “un volto cancellato” e di una identità
disfatta.
Una vita di stenti la sua, iniziata con un matrimonio
d'amore, quasi una mosca bianca fra i mille matrimoni combinati in
India, ma subito trasformata in una incubo di violenze e ricatti.
La
gelosia del marito Bilal, potente politico locale e poi, come accade
troppo spesso in Pakistan, il volto sfregiato con l'acido, versatogli
addosso di notte, da quell’uomo che temeva di essere lasciato.
Così,
tredici anni fa, inizia l'incubo, la consapevolezza di essere sola a
lottare contro la famiglia di un potente, il coraggio di chiedere il
divorzio e gli sforzi per cambiare.
Accolta dalla associazione
italiana Smileagain, 11 anni fa, ha cercato, intervento dopo
intervento, di ricostruirsi un volto e giorno dopo giorno una vita.
Quando
è arrivata nel nostro Paese aveva la faccia deturpata e il collo
talmente rattrappito dalle cicatrizzazioni da non consentirle più di
alzare la testa.
Tanti interventi e tanto dolore, raccontati nel
libro “Il volto cancellato”, scritto con la giornalista Elena Doni: un
importante documento di denuncia, un coinvolgente viaggio nei costumi e
nelle tradizioni di un paese lontano, ma anche e soprattutto una vicenda
simbolo, in cui si tutte le donne umiliate, offese, sopraffatte
dall’ignoranza e dalla prepotenza degli uomini, ma tenaci e capaci di
trovare la forza per risorgere e tornare a camminare a testa alta.
Ma quella forza, infine, è venuta meno, anche se ripeteva che “perdonare è possibile” e si deve andare avanti.
Il
marito, vivo, vegeto e risposato, per quel gesto ha fatto solo sei mesi
di carcere ed ora il figlio diciassettenne, Nauman, che ha vissuto
sempre con lei dice sconsolato che il grande coraggio di sua madre
rimarrà per sempre il simbolo della lotta delle donne islamiche per
l'emancipazione.
La giornata internazionale contro la violenza sulle
donne è stata istituita per la prima volta nel 1991, per la
commemorazione della morte delle tre sorelle Mirabal, attiviste della
repubblica Dominicana brutalmente assassinate il 25 novembre 1961 perché
si opponevano al regime dittatoriale del loro paese.
La loro storia è stata quindi scelta come emblema a livello mondiale di tutte le donne vittime della violenza di genere.
Nella
realtà, ancora oggi, la violenza sulla donne è trascurata, non le si
da la giusta importanza e possiamo senz’altro dire che né i media né
tanto meno le istituzioni facciano qualcosa di reale per cambiare le
cose. Se è accertato che il 70% degli stupri ha luogo fra le mura
domestiche, per mano di mariti, fidanzati, familiari e amici che sono i
primi da cui dovremmo sempre proteggerci, sappiamo bene che è raro
trovare queste notizie sulla prima pagina di un giornale soprattutto se
si tratta di italiani, magari anche di buona famiglia.
Tutto questo
però ci deve far capire quanto sia calibrato e distorto il discorso
pubblico sulla violenza nei confronti delle donne il cui unico fine
sembra quello di scatenare teoremi fatti di razzismo, di xenofobia e
paura di tutto ciò che è diverso da noi, visto come il pericolo assoluto
da cui dobbiamo stare lontane: da una parte il vogliono criminalizzare i
migranti e indirizzare verso di loro tutto il male che in realtà è ben
più subdolo e diffuso nella nostra società, dall’altra il messaggio che
passa è che dobbiamo avere paura, sempre, di uscire, di girare da sole,
di andare luoghi diversi da quello della nostra dolce casa.
Sempre
venerdì, alle 14 ora italiana, a migliaia di miglia di distanza,
nell’avamposto “Ice”, presidiato dai soldati italiani della Task Force
South-East, del 1° Reggimento Bersaglieri un attacco a colpi di mortaio,
ha ucciso Michele Silvestri, sergente di 33 anni di Monte Procida e
causato il ferimento di cinque altri commilitoni, fra cui una donna,
alcuni in gravissime condizioni.
Con Silvestri l'elenco delle
nostre vittime in Afganistan sale a cinquanta, mentre i Servizi segreti
avvertono che, di questo passo, il processo di transizione rischia di
fallire.
L'avamposto, secondo quanto si è appreso, era stato preso di
mira anche al mattino, sempre a colpi di mortaio, che però erano finiti
fuori dal perimetro della base.
Nel primo pomeriggio di venerdì l'attacco è stato ripetuto e, stavolta, alcune bombe sono andate a segno.
Dopo
il secondo attacco, sempre secondo quanto è stato possibile apprendere,
si sono alzati in volo degli elicotteri Mangusta che hanno
“neutralizzato” le postazioni nemiche.
Davvero magra consolazione se si considera il sangue versato per una guerra che appare sempre più inutile e insensata.
La
salma di Michele Sivestri è rientrata a Ciampino ieri e
nell’accoglierla il padre ha avuto un malore. Due dei militari feriti,
fra cui la donna, sono in gravi condizioni e si teme per la loro vita.
“L'Italia
continua a pagare purtroppo un altissimo prezzo di sangue e questo ci
addolora profondamente. La missione italiana in Afghanistan continua
comunque a essere decisiva per la tutela della libertà, della sicurezza e
della pace”, ha detto Schifani, ma noi, con molti altri, continuiamo a
dubitarne, in quella che appare sempre più una guerra di occupazione che
miete inutili vittime fra civili e militari.
Una guerra che, come
ogni guerra, non piaceva ad Antonio Tabucchi, morto sabato a Lisbona,
vinto dal cancro a 68 anni, dopo una carriera lunga 36 anni, iniziata
con il libro "Piazza d'Italia", pubblicato da Bompiani nel 1975. L'anno
scorso, "Racconti con figure", edito da Sellerio.
Fortemente legato
al Portogallo e alla cultura lusitana in genere, Tabucchi è stato il
maggiore esperto e traduttore di Fernando Pessoa, appassionato di
politica e sospinto senza sosta al confronto di idee.
Nel 1994
divenne famoso al grande pubblico grazie a "Sostiene Pereira",
ambientato in Portogallo durante la dittatura di Salazar, da cui Roberto
Faenza trasse il film omonimo con Marcello Mastroianni, divenuto il
simbolo della lotta per la libertà di informazione nei regimi
autoritari.
Nel 2009, già ammalato, collaborò con Oliviero Beha,
Maurizio Chierici e Marco Travaglio, alla scrittura del nuovo giornale
"Il Fatto Quotidiano".
I suoi libri sono tradotti in quaranta lingue e
alcuni dei suoi romanzi, non solo il più celebre, sono stati portati
sullo schermo da registi italiani e stranieri (Roberto Faenza, Alain
Corneau, Alain Tanner, Fernando Lopes) o sulla scena da rinomati registi
teatrali (Giorgio Strehler e Didier Bezace fra gli altri).
A
Lisbona, città natale della moglie, dove dal 1985 al 1987 era stato
anche direttore dell'Istituto Italiano di Cultura, viveva abitualmente
per sei mesi l'anno, trascorrendo gli altri sei in Toscana, dove
insegnava Letteratura all'Universitá di Siena.
"Casa Pessoa" ha
previsto per il 2 aprile dalle 10.30 del mattino, una”maratona di
lettura integrale di Requiem” ed il presidente della Fondazione Pedrosa,
ha commentato “gli scrittori continuano a vivere finché li leggiamo”,
intendo anche dire che siamo davvero vivi finché leggiamo e pensiamo.
Tabucchi
non ne faceva passare nessuna a nessuno, ha ricordato Marco Travaglio
su il Fatto Quotidiano, citando il caso della critica dello scrittore a
Ciampi che aveva aperto “ai ragazzi si Salò” che causò l’abbandono, da
parte del senatore Andrea Manzella, consigliere del Quirinale, della
presidenza dell’Unità, reo, con Le Monde di aver pubblicato quella
critica di Tabucchi.
“Che razza di Nazione è quella dove uno
scrittore può insolentire il capo dello Stato sull’Unità e su Le
Monde?”, si domandò Bruno Vespa, convinto che il dovere
dell’intellettuale sia quello di servire e plaudire sempre il potere,
mai di criticarlo. Uno dei suoi bersagli prediletti era Giuliano
Ferrara, il più servile dei servi berlusconiani eppure sempre
considerato “intelligente” da chi a Berlusconi avrebbe dovuto opporsi.
Una sera, a Porta a Porta, Ferrara definì l’Unità di Furio Colombo e
Antonio Padellaro “giornale omicida” e accusò Colombo e Tabucchi di
essere nientemeno che i “mandanti linguistici del mio prossimo
assassinio” (che naturalmente non ci fu).
Qualche anno dopo rubò
letteralmente un articolo che Tabucchi aveva scritto per Le Monde, in
cui ricordava i trascorsi di Ferrara come spia prezzolata della Cia, e
lo pubblicò in anticipo sul Foglio. Tabucchi gli fece causa al Tribunale
di Parigi, e la vinse.
Ma Tabucchi, che per me è stato, con
Pasolini e Sciascia, il più intelligente polemista dell’ultimo mezzo
secolo, colpiva anche a sinistra.
Ad esempio, intervenendo in
collegamento da Parigi nella famosa puntata di Annozero con Luigi De
Magistris e Clementina Forleo, che poi costò il posto e la carriera a
entrambi i magistrati coraggiosi, mostrando, più e contro lo stesso
Santoro, di aver capito che, su quelle due vicende, si giocava un bel
pezzo della nostra democrazia, intesa come separazione dei poteri.
Un’altra
volta, sempre da Santoro, si parlava della legge bavaglio sulle
intercettazioni e lui, col suo feroce e placido candore, tipico
dell’italiano all’estero, ricordò che i parlamentari non possono essere
intercettati: se la loro voce viene captata da una cimice è perché
parlano con qualche delinquente intercettato: “Se i nostri politici
telefonassero alla Caritas o alla Comunità di Sant’Egidio nessun giudice
li ascolterebbe”.
Era un uomo onesto e coerente Tabucchi, che prese
carta e penne per difendere Travaglio, con cui spesso non era d’accordo,
da una campagna orchestrata dal Corriere sulla sua presunta “misoginia”
per una critica a Ritanna Armeni, che faceva da spalla a Ferrara a
“Otto e mezzo”.
Un uomo onesto e sensibile che non le mandava a dire
e per questo era stato tenuto ai margini e guardato con sospetto
dall’Italia che conta, politica ed intellettuale.
E nonostante
Napolitano plauda, nel suo telegramma di cordoglio al suo “impegno
civile”, fa bene la moglie a lasciare al Portogallo la soddisfazione dei
funerali.
L’ultima morte sabato, con il 37enne Vigor Bovolenta,
fulminato da un infarto su un campo di Volley, mentre difendeva i colori
della sua Forlì, contro la Lube, a Macerata.
Aveva esordito con il
Messaggero Ravenna, nel 1990, maglia con la quale aveva vinto uno
scudetto tricolore, 3 Coppe del Campioni, 1 Coppa Italia, una Coppa Cev e
due Supercoppe Europee.
Poi la sua carriera era proseguita a
Ferrara, Roma, Palermo, Modena (campione d’Italia 2001-02), Piacenza,
Perugia, e, da ultimo Forlì.
Era stato in Nazionale,
soprannominato“iradiddio”, un uomo gigantesco ed inesauribile, tutto
riccioli e salti, capace di commuoversi fino alle lacrime quando Ciampi,
nel 2000, gli assegnò l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica.
In
Romagna, la sua terra d’adozione, aveva salutato la serie A e spinto
dall’inesauribile passione, aveva deciso di rimanere in campo giocando
in B2 ed iniziando una nuova carriera dirigenziale.
Si è sentito male
nel corso della partita a Macerata, dopo pochi minuti di gioco e a
nulla sono valsi gli sforzi dei soccorritori che hanno provato a lungo a
rianimare il giocatore.
E’ stato trasportato all'ospedale di
Macerata, si è spento, lasciando la moglie e 4 figli, ricordato sui
campi della Serie A con un minuto di silenzio.
L’unica buona
notizia in un triste week-end di lutti e amarezze, la liberazione ed il
ritorno alla vita di Claudio Colangelo, medico 61enne in mano ai
guerriglieri maoisti con Paolo Bosusco (che resta prigioniero), per
undici, terribili giorni. Nel corso della prigionia “ci siamo mossi
nella giungla”, ha detto agli intervistatori e il trattamento è stato
buono. E ancora: “Hanno fatto di tutto per venirci incontro”,
confermando che il capo dei maoisti, che si chiama Panda, si è rivelato
“buono” di nome e di fatto. “Erano tutti molto gentili. Anche i
bambini...perché tali mi sembravano alcuni di loro, e poi anche le
donne, tutti quanti mi hanno trattato bene”. Anche il mangiare, date le
circostanze, non è stato malaccio. Ora Colangelo, si augura una pronta
liberazione dell’amico Paolo Bosusco, ancora nella mani dei
guerriglieri, che avrebbe, come lui, contratto una forma di malaria
anche se lieve e non particolarmente grave.
La liberazione è avvenuta
a sorpresa, proprio mentre si temeva il peggio. Il tutto è accaduto
mentre nelle ultime ore il gruppo dei maoisti era rimasto coinvolto in
una lotta interna tra diverse fazioni.
Qualche giorno fa un
poliziotto indiano era stato rapito e quindi giustiziato immediatamente
con dei colpi di fucile alla testa mentre nelle stesse ore veniva rapito
anche un parlamentare indiano, da parte di un folto gruppo armato di
ribelli composto da un centinaio di persone.
Tutti episodi che hanno reso la trattativa per la liberazione dei due italiani estremamente complicata.
La
Farnesina ha atteso molte ore e varie conferme per diramare una nota
ufficiale in cui dava conferma dell'avvenuta liberazione, ma, ricordano
i giornali, la prova della liberazione è arrivata tempestiva e
puntuale da twitter, dove l'uomo è stato in grado di scrivere un
pensiero per la sua famiglia, aggiungendo un pensiero per l’amico ancora
in mano ai ribelli.
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