sabato 1 settembre 2012

Analisi Martini guardava così lontano da sembrare sconcertante nel presente

Nel 1986 radunò una Agorà in piazza Fontana sul tema della corruzione politica, e Mani pulite era lontana anni luce. Quattro anni dopo, a sant’Ambrogio, stupì tutti parlando del rapporto tra noi e l’Islam. Una figura complessa, la cui eredità spirituale e culturale durerà a lungo prima di venire completamente compresa e metabolizzata.

Nel novembre del 1986 il cardinale Carlo Maria Martini radunò nella sede arcivescovile di Piazza Fontana una “Agorà”, un pensatoio molto riservato sul tema lacerante e ancora sotterraneo della “corruzione politica” su impulso di un giovane professore di Fisica, Antonio Ballarin Denti, che era pro-tempore il segretario provinciale della Dc. A quel tavolo c’era il fior fiore dei cristiani impegnati non solo nella politica, ma negli enti economici di nomina pubblica: il quadro disegnato era realistico e preoccupante e vennero fuori ipotesi innovative di cambiamento e di radicale correzione. Peccato che (e lo testimonia chi qui scrive, unico giornalista partecipante, ma in quanto credente) quasi tutti gli invitati finissero poi (non pochi ingiustamente e poi assolti nei processi) nel tritacarne giudiziario dell’inchiesta Mani Pulite.
Una prova questa, poco nota, della straordinaria sensibilità del cardinal Martini nel cercare di cogliere nella realtà ecclesiale e cittadina le criticità aperte e di sforzarsi di intravedere le vie d’uscita, non solo per la sua Chiesa ma anche per la città e la sua comunità civile. D’altronde altrettanto riservato e paziente è stato nel corso dei decenni l’incontro e il rapporto con quei gruppi e comunità di “cristiani inquieti” al quale il vescovo, come padre sollecito e attento, testimoniava insieme la volontà di ascolto e la possibilità di restare come fermenti vivi anche dentro e a pieno titolo nella Chiesa-istituzione.
Quando i terroristi delle Brigate Rosse restituirono al cardinale le armi con le quali avevano insanguinato la vita civile, si capì anche simbolicamente che la sua strategia di incontro con ogni genere di “inquieti”, anche i più difficili, ne testimoniava insieme la sostanziale autorevolezza e il ruolo di supplenza alla politica e alla burocratica giustizia terrena che (magari senza volerlo) si era trovato ad esercitare nella fase di eterna transizione e di caduta dell’autorità che questo Paese, e in particolare la sua “capitale morale” andavano vivendo e forse da cui non sono ancora usciti.
Il punto di riferimento e la solida roccia che l’Arcivescovo di Milano venne a rappresentare per l’intera società fu apprezzato e sentito dagli atei e dagli agnostici quasi più dai cattolici organicamente raccolti. Certo, le sue iniziative erano a volte sorprendenti, come la Cattedra per i Non Credenti o le altre infinite forme di dialogo con i laici. Eppure, con la sua figura imponente e maestosa, trasmetteva senza sussiego una fiducia e un rispetto non usuali. La sua capacità di sapersi fare ascoltare dai “lontani” dalla fede nasceva però dal suo confronto quotidiano con la Parola di Dio di cui era stato faticoso maestro: ed era la fonte più sicura, se non l’unica, alla quale continuava ad attingere fin da quando, da affermato biblista, era stato strappato ai suoi studi da un “colpo di genio” del papa polacco e costretto ad “imparare sul campo” a fare il vescovo e il pastore di una diocesi decisiva per la Chiesa e terribilmente impegnativa per le sole risorse umane.
Semmai aveva messo nel conto, da buon gesuita, che il ritrovarsi con il suo prestigio culturale “all’onor del mondo” lo esponeva a facili e ripetute strumentalizzazioni, soprattutto di natura politica. Eppure non è arbitrario supporre che il suo cercare per Milano una forma inedita di una “nuova Gerusalemme” (l’amata terra dove sognava di chiudere la sua esistenza di esegeta e interprete teologico) lo portava a manifestare l’ansia del nuovo, la difficile missione di mettere comunque in contatto il groviglio pulsante di una complicata società contemporanea con i suoi dubbi e le sue sofferenze con l’eternità del suo Dio.
E non è un caso che, quanto era alto e riverente il rispetto del mondo laico, altrettanto era ambivalente e talvolta polemico il rapporto con la complessità quotidiana della sua Chiesa. Che fosse evidente la freddezza o il tacito dissenso nei confronti di molti movimenti organizzati (a cominciare da Comunione e Liberazione, peraltro poco amata – anche se per motivi diversi – dal suo predecessore sulla cattedra di Ambrogio, Giovanni Colombo) non è certo una scoperta recente. Piuttosto, tra i doveri di governo del vescovo, sentiva urgente la necessità di rifondare radicalmente la “macchina” della diocesi e il personale dedicato alla cura d’anime nell’assetto principale e storico dell’organizzazione territoriale.
In questo senso con l’inesausta predicazione e la produzione scritta (dai tantissimi volumi sulla fede cristiana e le sempre incisive Lettere Pastorali) ha formato intere generazioni di consacrati (dai preti alle suore) gettati nel mondo ad annunciare la Parola e insieme a testimoniare il soccorso e l’accoglienza all’umanità da incontrare ogni giorno nella missione evangelica. Un’impronta così forte e così carica di tensione spirituale da far apparire talvolta i “martiniani” come una falange compatta e forse altrettanto chiusa e autoreferenziale di quella prodotta dai movimenti (CL in testa) da cui ci si voleva distinguere.
E forse, troppo spesso, Martini è sembrato, anche nella pubblicistica cattolica (e non solo in quella “laica”) come il vero “altro Papa”: quello cioè che interpretava una “Chiesa alternativa” a quella vaticana e faceva della realtà ambrosiana una “Chiesa acefala”, autosufficiente, e che si bastava da sola a vivere la propria missione in polemica silenziosa e in sostanziale diversità dal magistero di Roma. Eppure sarebbe fare un torto alla ricca e complessa personalità del cardinale (un gigante della cultura e della fede dalle infinite sfaccettature e dalle mai scontate capacità di innovazione) se lo si inscatolasse nel bilancio conclusivo in una etichetta pregiudiziale. Se era ritenuto il “capofila dei progressisti” con qualche profumo di eresia, ne si immiserirebbe la portata e la sua inquietudine religiosa a non sfuggire alle domande inedite e sconvolgenti (non ultima la bioetica) con cui la modernità interpella soprattutto gli uomini dello spirito.
Perché, forse, sfugge al sentire diffuso e al complesso mediatico la sofferta fedeltà richiesta ai Gesuiti, quella cioè del voto speciale di obbedienza “perinde ac cadaver” al primato di Pietro. Una fedeltà magari più tormentata al carisma pubblico di Wojtyla, ma certamente più quieta e serena allo studioso e intellettuale come lui professor Ratzinger. (E non è un caso che nell’ultimo conclave sia stato proprio Martini a persuadere molti cosiddetti progressisti a convergere sull’elezione di Benedetto XVI). Perché, e il cardinale lo sapeva bene, è caratteristica costitutiva della Chiesa ambrosiana, pur nell’orgoglio della sua originalità perfino liturgica, il legame profondo e speciale con il successore pro tempore di Pietro.
In conclusione Carlo Maria Martini è stata una figura troppo grande per essere pianto e salutato soltanto come un semplice principe della Chiesa. La sua eredità spirituale e culturale durerà a lungo prima di venire completamente compresa e metabolizzata. Semmai, rispetto proprio alla vita civile, è stato spesso incompreso perché in realtà era un “presbite”: e cioè così acuto nel guardare lontano, nel futuro, da apparire sconcertante al suo presente. Si è citato qui l’esempio della sensibilità anticipatrice sulla “corruzione politica”, ben prima del ciclone ambiguo di Mani Pulite.

Allevamento lager a Pontinia

foto tratta da centro di Pontinia
Allevamento lager a Pontinia, l'azione coraggiosa di alcune volontarie. La notizia ha iniziato a circolare ieri quando su un noto social network è comparso il profilo "Allevamento lager di Pontinia".
Nelle foto alcuni esemplari di gatti persiani, disidratati e ammalati salvati da alcune ragazze che oltre a pubblicare foto e video hanno anche messo i loro nomi e cognomi per evitare che si possa pensare ad una bufala. Ancora non si conosce chi sia il proprietario dell'allevamento lager ma non si escludono controlli nelle prossime ore. Intanto i mici sono amorevolmente curati dalle volontarie che auspicano l'adozione da parte di qualche cittadino motivato.

TALIDOMIDE, IL SEDATIVO CHE FECE NASCERE 10MILA DEFORMI: DOPO 50 ANNI LE SCUSE

Sue Kant, ex bambina vittima del talimoide
Più di cinquant'anni di silenzio, migliaia di bambini nati deformi e le scuse, con un ritardo di decenni. La compagnia farmaceutica tedesca che produceva il Talidomide, un sedativo per placare la nausea nelle donne incinte in vendita alla fine degli anni '50 che ha provocato malformazioni in 10mila bambini in tutto il mondo, finalmente ha presentato le sue scuse alle vittime.

«Vi preghiamo di perdonarci per i 50 anni in cui non vi abbiamo mai parlato ad un livello umano, ed invece siamo rimasti in silenzio», ha detto Harald Stock, Ceo dalla Gruenenthal, durante la cerimonia di inaugurazione di un monumento per le vittime del farmaco. Negli anni settanta la compagnia ha pagato risarcimenti finanziari ai bambini nati tra il 1957 e l'inizio degli anni '60 - il farmaco fu ritirato nel 1961 - con gravissime malformazioni dopo che le loro madri avevano assunto il farmaco prescritto per alleviare la nausea a gli altri malesseri della gravidanza. Ma i vertici della casa farmaceutica non erano mai andati oltre la vaga espressione di un dispiacere per la «tragedia». Stock ha definito deprorevole il fatto che la Gruenenthal non abbia in tutti questi anni chiesto scusa alle vittime.

IL GENE DELLA FELICITA' E' FEMMINA

La felicità è femmina. Una nuova ricerca ha identificato, per la prima volta, il gene responsabile della felicità femminile. Lo stesso gene non esiste negli uomini. Gli scienziati della South Florida University hanno identificato il legame fra uno specifico gene, denominato monoamine assidasi A (MAOA), con le reazioni del cervello alla dopamina ed alla serotonina, sostanze chimiche connesse con gli stati d'animo positivi, come l'allegria, la serenità e la felicità.

 La ricerca è pubblicata sulla rivista Progress in Neuro-psychopharmacology and biological psychiatry di agosto. «Una bassa espressione del gene MAOA è correlata con stati d'animo sereni, una alta espressione invece è connessa con stati negativi come l'alcolismo, i comportamenti aggressivi e antisociali,» spiega Henian Chen, a capo dell'indagine al dipartimento di epidemiologia e biostatistica dell'universit… americana. «Negli uomini tale correlazione Š invece del tutto assente. Probabilmente ci sono altri meccanismi neurologici ancora ignoti ma comunque diversi per il cervello maschile».

Lo studio ha analizzato il DNA di 193 donne e 152 uomini, approfondendo la presenza del gene MAOA in rapporto allo stato d'animo. I ricercatori avanzano anche l'ipotesi che la differenza fra la felicità maschile e quella femminile a livello cerebrale sia da ricercare nel testosterone: «Alti livelli di testosterone presenti negli uomini cancellano ogni possibile effetto del gene OMOA sul loro umore» precisa Chen che conclude : «Può essere che gli uomini siano più felici prima dell'adolescenza perchè i loro livelli di testosterone sono bassi».

SINDROME DI MUNCHHAUSEN: PROBLEMA ABUSO SULL'INFANZIA

La Sindrome di Münchhausen per procura è un disturbo mentale che affligge per lo più donne madri che le spinge ad arrecare un danno fisico al figlio/a per attirare l’attenzione su di sé.  La madre viene così a godere della stima e dell’affetto delle altre persone perché la madre si preoccupa della salute del proprio figlio/a.  Questa sindrome costituisce un serio abuso sull’infanzia.
Il primo ad introdurre la dicitura di MSP fu il pediatra inglese Roy Meadow, in una pubblicazione del 1977 [link all'articolo originale]. Il DSM-IV definisce la MSP come “Disturbo Fittizio con Segni e Sintomi Fisici Predominanti (300.19)” e nel DSM-IV-TR è cosi descritto: “La caratteristica essenziale è la produzione deliberata o simulazione di segni e sintomi fisici o psichici in un’altra persona che è affidata alle cure del soggetto. Tipicamente la vittima è un bambino piccolo, e il responsabile è la madre del bambino.

La motivazione di tale comportamento viene ritenuta essere il bisogno psicologico di assumere, per interposta persona, il ruolo di malato”. Meadow la definisce: “Situazione in cui i genitori, o inventando sintomi e segni che i propri figli non hanno, o procurando loro sintomi e disturbi (per esempio somministrando sostanze dannose), li espongono ad una serie di accertamenti, esami, interventi che finiscono per danneggiarli o addirittura ucciderli”.
Nel Regno Unito l’incidenza dei casi in bambini sotto l’anno di vita è circa di 2,8 su 100 000 all’anno e si calcola un tasso di mortalità tra il 9 e il 22% dei casi (Rosemberg, 1987; Sheppard, 2001). Per quanto ci siano molte relazioni di casi di MSP non esistono dei dati di prevalenza basati sulla popolazione.
La durata media per stabilire una diagnosi di MSP generalmente supera i sei mesi, spesso un fratello o una sorella è morto di cause non diagnosticate prima che sia scoperta la MSP.

Caratteristiche
La caratteristica principale della MSP è il coinvolgimento di un genitore, solitamente la madre, che di fatto provoca i sintomi del figlio.
Solitamente i sintomi non sono caratteristici di malattie conosciute e questo confonde i pediatri e gli altri clinici e li induce ad ulteriori accertamenti. In genere passa parecchio tempo prima che i medici inizino a prendere in considerazione l’idea che il malessere del piccolo paziente sia procurato dalla madre.
I metodi usati per creare sintomi nei figli sono eterogenei e spesso crudeli. Ad alcuni bambini sono state iniettate segretamente feci, urine o saliva, oppure flora fecale e microbi vaginali. Altri sono stati avvelenati con veleno per topi, purganti, arsenico, olio minerale, lassativi, insulina, sale o pepe da tavola, zucchero, tranquillanti e sedativi e in un caso persino con massicce quantità di acqua.

Tra gli attacchi fisici si sono verificati tra gli altri: punture di spillo sul viso e sul corpo, lesioni facciali da strumento o con unghie, e soffocamento premendo una mano o un cuscino sul volto. Altri attacchi fisici ugualmente pericolosi sono stati volontaria sottonutrizione e ambiente domestico sporco e trascurato, induzione di attacchi epilettici o perdita di coscienza. Una tecnica indiretta usata da queste madri è di falsificare le analisi di laboratorio, introducendo elementi estranei nei campioni, alterando i veri risultati delle analisi, o sostituendoli con altri di pazienti realmente malati.
La dottoressa Donna Rosemberg dell’Health Sciences Center dell’Università del Colorado indica quattro principali caratteristiche della MSP:
  • la malattia del bambino viene simulata e/o provocata da un genitore o da chi ne fa le veci;
  • il bambino viene ripetutamente sottoposto a esami e trattamenti medici;
  • il responsabile dei maltrattamenti nega di sapere la causa della malattia del bambino;
  • la sintomatologia acuta si riduce quando il bambino viene allontanato dal responsabile.
Sottotipi
Judith Libow e Herbert Schreirer del Children’s Hospital Medical Centre di Oakland hanno classificato la MSP secondo le tipologie dei genitori:
Cercatori di aiuto. Sono casi solo apparentemente simili a quelli della MSP. Normalmente si ha un unico episodio di malattia immaginaria piuttosto che una lunga serie di esperienze mediche. Posta di fronte all’evidenza, la madre reagisce con sollievo, è disposta a collaborare e non tradisce alcun segno di ostilità o rifiuto. L’inganno le consente di cercare le cure mediche per sé, legittimando attraverso il figlio ‘malato’ il bisogno di aiuto psicologico;
Responsabili attivi. Sono i casi da manuale della MSP, in cui un genitore direttamente e attivamente provoca i sintomi nel bambino tramite soffocamento, iniezioni o avvelenamento. Quello che stupisce è che queste madri sono straordinariamente cooperative e grate verso i medici, tanto da sembrare le madri ideali;
Medico-dipendenti. In questi casi di MSP l’inganno si limita ad un falso resoconto dei precedenti clinici del bambino. Non c’è alcun intervento diretto sulla sintomatologia. Naturalmente, a causa di questi falsi sintomi, il bambino subisce molti esami inutili e dolorosi. Le madri sono convinte che i figli siano realmente malati e si risentono se medici e personale ospedaliero non confermano le loro convinzioni. I bambini di questo gruppo sono in genere più grandi. Le madri sono tendenzialmente più ostili, paranoiche ed esigenti verso i medici da cui sono ‘dipendenti’.
Un altro sottotipo di MSP è stato individuato nella sindrome di Münchausen “seriale”, vale a dire che si ripete con più figli della stessa famiglia. In una rassegna di 117 casi riportati in letteratura la percentuale di episodi che si ripetono all’interno della stessa famiglia è del 9% (Rosemberg, 1987). Spesso nei casi di MSP seriale i figli “si ammalano” uno per volta, di solito intorno alla stessa età del fratello precedente, ma sono riportati casi in cui tutti i figli venivano ricoverati nello stesso momento.
Caratteristiche della madre affetta da MSP
Solitamente la madre MSP è una donna abbastanza colta, in grado di esprimersi con proprietà. Talvolta ha una preparazione medica di qualche tipo. Può aver frequentato un corso di laurea in infermieristica o in medicina, senza necessariamente laurearsi o conseguire in titolo. Spesso segue con attenzione le serie televisive di ambientazione ospedaliera o medica, compra riviste che trattino dell’argomento e legge dizionari medici. Quando il figlio viene ricoverato si dimostra un’ottima interlocutrice per il personale sanitario, ascolta con attenzione e si dimostra collaborativa. È per questo che una diagnosi di MSP viene solitamente accolta con sorpresa dagli operatori, che la consideravano una madre affettuosa e amorevole.
Gli aspetti patologici di una madre MSP sono da considerarsi le reazioni paranoidi, la convinzione maniacale che il figlio sia malato e la personalità sociopatica. Appare infatti evidente che queste donne adottano uno stile affascinante e subdolo per sfruttare gli altri violando le norme sociali e morali, senza senso di colpa o rimorso alcuno. Sono frequentemente affette da un disturbo di personalità più o meno marcato (istrionico, borderline, passivo-aggressivo, paranoide, narcisistico).
Infine è ricorrente il fatto che le madri abusanti siano state a loro volta vittime di maltrattamento, anche se in forma diversa, durante l’infanzia da parte dei genitori (Eminson, Postlethwaite, 1992; McGuire, Feldman, 1989; Rosemberg, 1987). Meadow ha reperito il ricorrere di abuso psicologico e incuria nel 70% almeno, e di violenza fisica e sessuale in circa un quarto delle madri che hanno soffocato uno o più figli.
Ruolo del padre in MSP
Il ruolo del padre è misterioso e incerto. Il più delle volte è assente dalla vita familiare o resta lontano da casa per la maggioranza del tempo. Questo, naturalmente aiuta la madre nel fabbricare i sintomi senza che nessuno se ne accorga. Il fatto curioso, tuttavia, è che quando la donna viene scoperta e messa di fronte agli abusi perpetrati non di rado il marito la sostiene e può persino rendersi complice dei suoi inganni, facilitando tacitamente il suo comportamento.
Legami con la sindrome di Münchausen
Molte madri affette da MSP hanno a loro volta precedenti di sindrome di Münchausen. Randal Alexander et al. hanno studiato cinque famiglie affette da ‘MSP seriale’, famiglie, cioè, in cui più di un figlio aveva subito maltrattamenti. Da questo studio è emerso che l’80% delle madri aveva inventato, almeno una volta, la propria sintomatologia. In ogni caso tutti gli esperti sembrano essere d’accordo sull’esistenza di un rapporto tra la MSP e la sindrome di Münchausen negli adulti.
Terapia
I pazienti con sindrome di Münchausen per procura sono trattati raramente con successo, comunque le terapie implicano raramente l’utilizzo di psicofarmaci e impiegano anni di counseling.
L’approccio migliore per evitare o contenere i rischi anche a lungo termine è reputato quello di un programma terapeutico integrato, con intervento non solo di psicologi e psichiatri, ma anche di pediatri e professionisti delle agenzie di protezione dei bambini.
Implicazioni legali
La sindrome di Münchausen per procura può essere a tutti gli effetti considerata un abuso sui minori. Questo tipo di abuso, tuttavia, non è ben noto, né tra il pubblico, né tra i medici che hanno in cura questi pazienti. In letteratura questi bambini vengono definiti “maltrattati chimicamente” o “batteriologicamente seviziati”.
Le persone affette da sindrome di Münchausen per procura si trovano, sia dal punto di vista legale che dal punto di vista medico, in una condizione particolare e bizzarra. Infatti, perché la sindrome sia riconosciuta è necessario che sia verificato un comportamento di tipo criminale, e il comportamento criminale è interpretabile solo sulla base della sindrome. Come è ovvio non è mai stato osservato un paziente affetto da sindrome di Münchausen per procura che non abbia maltrattato un figlio.

fonte alienazione genitoriale 

VIOLENTA LA SUOCERA E DA FUOCO AL LETTO

Abusa sessualmente della suocera 50enne, minacciandola con un coltello, brucia il letto in cui si sarebbe consumata la violenza, litiga e malmena il marito di lei, sottrae con la forza a entrambi le fedi nuziali.

Finisce poi in ospedale con un taglio alla mano e dà in escandescenze quando i medici chiamano i carabinieri per calmarlo. Poi i guai. Grossi guai che hanno fatto scattare le manette ai polsi di un 23enne di origini magrebine, residente proprio nella casa dei suoceri. È stato arrestato dai carabinieri di Vittorio Veneto con le accuse di violenza sessuale, rapina, danneggiamento, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale.

Ieri il giovane è sfilato davanti al giudice Elena Rossi per l'interrogatorio di convalida dell'arresto. Il 23enne ha respinto le accuse, negando la violenza e parlando di un rapporto consenziente. Circostanza che non gli ha evitato di rimanere dietro le sbarre. Ma la vicenda ha ancora molti lati oscuri, come si apprende dalla difesa del giovane (avvocato Rosaria Fusco d’ufficio). Cosa sia realmente accaduto tra le mura domestiche lo si saprà forse solo dopo il processo, ma al momento i dubbi degli inquirenti ci sono. Incrociando quanto emerge dalla denuncia con quanto dichiarato dall'indagato, la ricostruzione dei fatti a cui è giunta la Procura necessita di diversi chiarimenti.

Innanzitutto camicetta e reggiseno della vittima sono stati slacciati e non strappati, così come le mutandine. Il rapporto sessuale sarebbe stato completo e non ci sarebbero tracce del coltello. Dopo il presunto abuso si è scatenata la furia del marito della vittima, con il quale il 23enne sarebbe venuto alle mani. A finire in ospedale però è stato soltanto l'arrestato e non il suocero. Un altro fattore ancora poco chiaro riguarda l'incendio del letto: dai primi riscontri la benzina sarebbe stata portata all'interno dell'appartamento dalla figlia della vittima e compagna del 23enne. Inoltre, per quanto riguarda la rapina, non si sa dove siano finite le fedi nuziali.

Tutti elementi che portano difesa e inquirenti a mettere le mani avanti, attendendo i risultati delle indagini prima di pronunciarsi. Infine stando a quanto raccontato dal giovane, non ci sarebbe nemmeno stata resistenza a pubblico ufficiale all'interno dell'ospedale vittoriese. Resta il fatto però che a carico del 23enne c'è una denuncia dettagliata sporta dai due coniugi, che ad oggi inchioda il nordafricano alle proprie responsabilità.

EDUCARE ALLA LIBERTA' di Paola Petrucci


Il 31 agosto 1870 nasceva a Chiaravalle (AN) Maria Montessori, grande educatrice ed una delle prime donne in Italia a laurearsi in medicina.
Il metodo educativo da lei elaborato ed applicato in migliaia di scuole in tutto il mondo si basa sulla libertà di esprimere e sviluppare le potenzialità dei bambini prima che vengano sopite dall’età adulta.
Mi è sempre piaciuto pensare al metodo Montessori, che ho sperimentato da educanda e che ho studiato da educatrice, come ad un grande esempio di educazione alle pari opportunità intese come la possibilità di offrire a tutti la possibilità di manifestare pienamente le proprie potenzialità.
L’aspetto che trovo più affascinante del metodo Montessori è che è stato elaborato oltre cento anni fa, in tempi in cui questi concetti sembravano provenire da un altro pianeta e il concetto di parità era ancora lontano.
Ancora oggi la parità reale è difficile da raggiungere e lottiamo contro stereotipi di genere e tabù educativi e culturali che minano la realizzazione di pari opportunità tra i generei e tra le generazioni.
In questa fine estate, mentre scendono le temperature per spingerci a tornare più volentieri all’interno delle case e ad occuparci del quotidiano possiamo cogliere questi suggerimenti per coltivare le nostre attenzioni alle tematiche di parità.

Paola Petrucci 

DICHIARAZIONI DI EMILIO FEDE:LE PROSTITUTE GUADAGNANO PIU' DI ME'

Nel contratto con Mediaset iniziato il primo giugno ci sono autista, casa, ufficio e 20mila euro netti al mese, ma neppure un euro di buonuscita dopo 24 anni. E devo fare un programma. Un contratto dignitoso, mi avrebbero dovuto dare molto di più dopo quello che ho dato all'azienda".
"Ventimila euro al mese sono niente per quello che ho fatto - dice ancora Fede - mica sono stato lì a rubare. Non è che navigo nell'oro, non ho un appartamento di lusso. Non trasformiamo 20mila euro in un fondo ricchezza. Non significa essere ricchi e poi un po' di soldi li passo a mia moglie e a mia figlia. Non è un contratto sontuoso. Non ditemi che sono la ricchezza. Io ho lavorato per sessant'anni, fino a 81 anni, e nell'ultimo periodo senza prendere un giorno di ferie".
"Le prostitute? E' un lavoro che va legalizzato, di sicuro guadagnano più di me".

La crisi alimentare che i media non raccontano

Niger, un video per aprire gli occhi

 

La crisi alimentare che i media non raccontano protagonista di una "pillola" video - prima di una serie - curata da Save The Children


PROBLEMI PROFILO

Gentili lettori ho avuto qualche problema con il vecchio profilo facebook, se volete potete trovarmi su Twitter a questo indirizzo https://twitter.com/DafneLaRosa
oppure sulla mia pagina facebook http://www.facebook.com/pages/Il-sesso-degli-angeli-blog-di-Dafne-La-Rosa/152436714895841?ref=hl

Grazie!! :)
Dafne La Rosa

STUPRO: LA VITTIMA HA CERCATO DI RESISTERE

Sono quelle sere in cui la vita non ti fa sconti, ma lei l’ha realizzato troppo tardi. Altrimenti non avrebbe ingaggiato una stupida lite, mossa da una stupida gelosia, con l’uomo che da qualche tempo la ospitava, che l’aveva strappata a un’esistenza fin troppo randagia. Altrimenti non si sarebbe precipitata per le scale, sbattendo furiosa la porta, per andare a rimuginare su una panchina di un parco spelacchiato, all’una di notte, dove il suo carnefice l’aspettava. Picchiata, violentata, rapinata. In una sequenza brutale che però non gli ha tolto la freddezza e il coraggio: con quel telefonino che le era rimasto miracolosamente tra le mani ha chiamato il 113, ha descritto lo stupratore e ha chiesto soccorsi.

L’hanno accerchiato un branco di volanti del commissariato Prenestino nel volgere di cinque-sei minuti. È un marocchino di 24 anni, stava frugando ancora nello zainetto strappato alla sua vittima. E’ accaduto a Torpignattara, in viale dell’Acquedotto Alessandrino. Il parco spelacchiato, con certe brutte siringhe puntate sul terreno, si chiama in realtà parco Giordano Sangalli, un piccolo tempio della Roma multietnica e anche disperata, dove gli immigrati del Bangladesh sgobbano onestamente tutto il giorno e poi la sera si ubriacano e ne combinano di tutti i colori, dove i ragazzini del quartiere, giusto l’altra notte, sono stati sorpresi e interrotti nel loro gioco preferito: sassate allo straniero. In questa piccola giungla -dove continuano a manifestarsi indomite propensioni alla pacifica convivenza, con un circolo bocciofilo, il bar, l’area per i cani- ci è finita lei, Franca se vogliamo, con i suoi 48 anni carichi di fallimenti.

Tre figli avuti da due uomini -il più grande ha già 30 anni-, un divorzio, il lavoro da donna delle pulizie appena perduto, perché la grande crisi porta anche questo. E quella sistemazione molto provvisoria, a casa di un vecchio amico, proprio di fronte al parco. Ma dopo cena ha citofonato una donna, un’altra donna, e Franca è esplosa.

E’ andata a rifugiarsi sulla panchina dove l’aspettava Khaled uno che in quel parco non ci viene mai, che abita a Cinecittà, che lavora come muratore in una piccola azienda, che nella sua breve permanenza in Italia può già vantare precedenti per guida in stato di ebbrezza, resistenza a pubblico ufficiale e ricettazione. Niente male, insomma, come tipo. Khaled la mette subito giù dura. Tira fuori dalla tasca un mucchietto di banconote fruscianti e le mostra alla donna: l’ha presa per una prostituta, vuole sesso a pagamento. Lei rifiuta con tutto il fiato che ha in gola, ma lui non si dà per vinto. La prende per la braccia e comincia a picchiarla.

Franca resiste ancora, viene trascinata senza pietà sotto gli archi dell’acquedotto di epoca romana, quello delle cartoline e lì violentata. Il ragazzo scappa con il suo zainetto. Ma commette l’errore di lasciarle il telefonino e con quello lei chiama subito la polizia. Khaled non è andato lontano, forse convinto di averla fatta franca: i poliziotti lo sorprendono a quattrocento metri dal luogo della violenza, mentre sta ancora rovistando nello zainetto alla ricerca di qualcosa di prezioso. Viene arrestato, è passato così poco tempo dalla stupro che ora stanno pensando di appioppargli anche la flagranza di reato, oltre alla violenza sessuale aggravata e alla rapina.

Sono quelle sere in cui la vita non ti fa sconti, ma lei l’ha realizzato troppo tardi. Altrimenti non avrebbe ingaggiato una stupida lite, mossa da una stupida gelosia, con l’uomo che da qualche tempo la ospitava, che l’aveva strappata a un’esistenza fin troppo randagia. Altrimenti non si sarebbe precipitata per le scale, sbattendo furiosa la porta, per andare a rimuginare su una panchina di un parco spelacchiato, all’una di notte, dove il suo carnefice l’aspettava. Picchiata, violentata, rapinata. In una sequenza brutale che però non gli ha tolto la freddezza e il coraggio: con quel telefonino che le era rimasto miracolosamente tra le mani ha chiamato il 113, ha descritto lo stupratore e ha chiesto soccorsi.

L’hanno accerchiato un branco di volanti del commissariato Prenestino nel volgere di cinque-sei minuti. È un marocchino di 24 anni, stava frugando ancora nello zainetto strappato alla sua vittima. E’ accaduto a Torpignattara, in viale dell’Acquedotto Alessandrino. Il parco spelacchiato, con certe brutte siringhe puntate sul terreno, si chiama in realtà parco Giordano Sangalli, un piccolo tempio della Roma multietnica e anche disperata, dove gli immigrati del Bangladesh sgobbano onestamente tutto il giorno e poi la sera si ubriacano e ne combinano di tutti i colori, dove i ragazzini del quartiere, giusto l’altra notte, sono stati sorpresi e interrotti nel loro gioco preferito: sassate allo straniero. In questa piccola giungla -dove continuano a manifestarsi indomite propensioni alla pacifica convivenza, con un circolo bocciofilo, il bar, l’area per i cani- ci è finita lei, Franca se vogliamo, con i suoi 48 anni carichi di fallimenti.

Tre figli avuti da due uomini -il più grande ha già 30 anni-, un divorzio, il lavoro da donna delle pulizie appena perduto, perché la grande crisi porta anche questo. E quella sistemazione molto provvisoria, a casa di un vecchio amico, proprio di fronte al parco. Ma dopo cena ha citofonato una donna, un’altra donna, e Franca è esplosa.

E’ andata a rifugiarsi sulla panchina dove l’aspettava Khaled uno che in quel parco non ci viene mai, che abita a Cinecittà, che lavora come muratore in una piccola azienda, che nella sua breve permanenza in Italia può già vantare precedenti per guida in stato di ebbrezza, resistenza a pubblico ufficiale e ricettazione. Niente male, insomma, come tipo. Khaled la mette subito giù dura. Tira fuori dalla tasca un mucchietto di banconote fruscianti e le mostra alla donna: l’ha presa per una prostituta, vuole sesso a pagamento. Lei rifiuta con tutto il fiato che ha in gola, ma lui non si dà per vinto. La prende per la braccia e comincia a picchiarla.

Franca resiste ancora, viene trascinata senza pietà sotto gli archi dell’acquedotto di epoca romana, quello delle cartoline e lì violentata. Il ragazzo scappa con il suo zainetto. Ma commette l’errore di lasciarle il telefonino e con quello lei chiama subito la polizia. Khaled non è andato lontano, forse convinto di averla fatta franca: i poliziotti lo sorprendono a quattrocento metri dal luogo della violenza, mentre sta ancora rovistando nello zainetto alla ricerca di qualcosa di prezioso. Viene arrestato, è passato così poco tempo dalla stupro che ora stanno pensando di appioppargli anche la flagranza di reato, oltre alla violenza sessuale aggravata e alla rapina.

Franca viene soccorsa e trasportata all’ospedale Vannini, l’ex Figlie di San Camillo, in via dell’Acqua Bullicante. Sette giorni di prognosi per una notte che non riuscirà a dimenticare mai. Per il marocchino, invece, si aprono le porte del carcere. La procura, in mattinata, chiederà al gip la conferma dell’arresto. In una Roma che nella sera stessa di lunedì ha visto altre due donne aggredite, al Laurentino e ai Parioli, per fortuna senza drammatiche conseguenze, sono riesplose le polemiche sulla sicurezza.

E’ sceso in campo per primo il sindaco Alemanno chiedendo «condanne esemplari» per il nordafricano arrestato, perché «siamo di fronte ad un delinquente che non solo tradisce l'accoglienza che gli offre il nostro Paese, ma che abusa di una persona totalmente indifesa». Gli ha replicato il pd sostenendo che «ormai Roma e diventata la capitale degli stupri, una città sempre più insicure soprattutto per le donne».

Eppoi è cominciata una schermaglia sulle cifre che in realtà, secondo il Viminale, sono in leggera flessione: 365 violenze sessuali nella Capitale nel 2011 contro le 378 dell’anno precedente e soprattutto paragonate alle 425 di Milano. Alemanno si spinge più indietro nel tempo: «Dal 2007 al 2011 i reati a Roma sono diminuiti del 14%, passando da 225.774 a 194.945. La nostra città è una delle metropoli più sicure a livello europeo e lo è sicuramente a livello nazionale».Franca viene soccorsa e trasportata all’ospedale Vannini, l’ex Figlie di San Camillo, in via dell’Acqua Bullicante. Sette giorni di prognosi per una notte che non riuscirà a dimenticare mai. Per il marocchino, invece, si aprono le porte del carcere. La procura, in mattinata, chiederà al gip la conferma dell’arresto. In una Roma che nella sera stessa di lunedì ha visto altre due donne aggredite, al Laurentino e ai Parioli, per fortuna senza drammatiche conseguenze, sono riesplose le polemiche sulla sicurezza.

E’ sceso in campo per primo il sindaco Alemanno chiedendo «condanne esemplari» per il nordafricano arrestato, perché «siamo di fronte ad un delinquente che non solo tradisce l'accoglienza che gli offre il nostro Paese, ma che abusa di una persona totalmente indifesa». Gli ha replicato il pd sostenendo che «ormai Roma e diventata la capitale degli stupri, una città sempre più insicure soprattutto per le donne».

Eppoi è cominciata una schermaglia sulle cifre che in realtà, secondo il Viminale, sono in leggera flessione: 365 violenze sessuali nella Capitale nel 2011 contro le 378 dell’anno precedente e soprattutto paragonate alle 425 di Milano. Alemanno si spinge più indietro nel tempo: «Dal 2007 al 2011 i reati a Roma sono diminuiti del 14%, passando da 225.774 a 194.945. La nostra città è una delle metropoli più sicure a livello europeo e lo è sicuramente a livello nazionale».

POLEMICA FEMMINISTA CONTRO LE BIC "ROSA"

Una polemica tutta al femminile.

Ha scatenato l'ira e il sarcasmo delle femministe la scelta della Bic di realizzare una linea di penne per sole donne. Una rivolta nata sul mercato anglosassone e diffusa dal popolare sito di vendita online Amazon, sommerso da commenti contro le "Bic for Her".

 E soprattutto contro gli slogan pubblicitari utilizzati dall'azienda per lanciare il prodotto, ritenuti sessisti: "corpo sottile, adatto alle mani delle donne" e "design elegante, solo per lei".

 Si va da commenti come "chiederò a mio marito qualche soldo in più per poterla comprare" al "perfetta per appuntarmi le ricette in cucina o segnare i giorni del mio ciclo". E l'ondata d'indignazione sembra soltanto all'inizio

PEDOFILIA: GIANNINO, PROF DI RELIGIONE ABUSA DI DUE TREDICENNI

L'accusa è pesantissima: pedofilia. Avrebbe abusato di due tredicenni, una settimana fa, a Rapallo, nelle vicinanze del Castello. 

Ma lui, Alberto Giannino, 51 anni, di Voghera, con seconda casa nella città del Tigullio, insegnante di materie religiose in un liceo milanese, nega tutto. E, dopo l'arresto da parte della polizia avvenuto nella sua abitazione, si rifiuta di chiarire le proprie ragioni al magistrato, avvalendosi della facoltà di non rispondere. Tramite l'avvocato difensore, poi, Giannino annuncia di voler arrivare ad attuare lo sciopero della fame. Gli episodi che hanno portato in carcere quest'uomo all'apparenza irreprensibile - Giannino, fra l'altro, è presidente dell'Associazione culturale docenti cattolici - sarebbero avvenuti una settimana fa e riguarderebbero le molestie nei confronti di due cuginetti, attirati con l'offerta di soldi per comprare una bibita. Subito dopo (il condizionale è d'obbligo, in attesa dell'accertamento definitivo dei fatti), l'uomo avrebbe invitato i tredicenni a seguirlo, cominciando a fare delle avance e arrivando a toccare nelle parti intime almeno uno di loro. 

È a quel punto che si è avvicinato un papà dei ragazzini che, di fronte a quello che pareva un'evidenza senza margini di dubbio, ha chiamato l'altro genitore e insieme hanno avvertito la polizia. Immediata e decisa la reazione dell'insegnante: si è dichiarato innocente e ha respinto l'accusa prima davanti agli agenti, poi davanti al magistrato, il quale ha comunque disposto l'arresto. Il legale di Giannino, l'avvocato Matteo Groppo, ha chiesto al gip gli arresti domiciliari in considerazione del fatto che l'uomo è incensurato. «La richiesta della misura cautelare - ha spiegato Groppo - deriva anche dal fatto che il mio assistito vive con la madre anziana, invalida al 100 per cento, della quale si deve occupare giornalmente. Ed essendo egli stesso diabetico, ha bisogno di cure particolari, incompatibili con la carcerazione».

PEDOFILIA, ARRESTATO ALBANESE A FANO

PESARO - Lascia il figlio di nemmeno 5 anni solo a casa per recarsi a un 'appuntamento' ai giardinetti con un 15enne al quale aveva proposto rapporti sessuali in cambio di soldi. Con questa accusa un albanese di 36 anni, H.U., con precedenti per abusi sessuali su minori, e' stato arrestato dai carabinieri di Fano per abbandono di minori e denunciato per tentata violenza sessuale. Il 15enne si era confidato con gli amici e questi, a loro volta, con i genitori, da cui, poi, e' partita la denuncia.

venerdì 31 agosto 2012

LA STORIA DI EMMA WEB... ALLE INGLESI PIACCIONO GLI ADOLESCENTI?!?

Emma Webb, 41 anni, è sposata e ha quattro figli. E tre amanti adolescenti. A raccontare la storia Emma, finita davanti al tribunale di Reading, è il Daily Mail.
La signora Webb è accusata di aver avuto rapporti sessuali con tre ragazzi tra i 15 e i 17 anni che frequentano la scuola in cui lei è insegnante di sostegno.
Ma non finisce tutto in una storia di sesso. La donna avrebbe chiesto di avere rapporti in cambio di promozioni scolastiche. Per questo è accusata di abuso d’ufficio. Per il procuratore Helen Gamrbill Emma Webb sarebbe una “predatrice sessuale”.
La donna avrebbe dormito con uno dei tre ragazzi almeno dodici volte, e avrebbe avuto rapporti sessuali con lui e con un altro dei giovani, mentre avrebbe “baciato e palpato” (scrive il Daily Mail) il terzo adolescente.
La signora Webb avrebbe anche inviato a uno dei tre delle immagini che la immortalavano mentre si masturbava.
Emma Webb è stata sospesa dall’insegnamento lo scorso 31 maggio, quando un collega ha riferito i suoi sospetti sui suoi rapporti molto “stretti” con alcuni studenti. La donna è stata arrestata dopo che una delle tre vittime ha raccontato ai propri genitori la vicenda.
La donna ha ammesso le relazioni. La sentenza arriverà il mese prossimo. Uno dei suoi vicini di casa ha detto al Daily Mail: “Conosco Emma da quando era bambina. E’ l’ultima persona al mondo che avrei sospettato di fare queste cose”.

ORRORE A KABUL: DECAPITATI DUE BAMBINI

KABUL- Ennesimo orrore in Afghanistan. Due bambini, un maschietto di 12 anni ed una bimba di 6, sono stati decapitati in Afghanistan. I due episodi, riferisce la polizia, non sono collegati tra loro. Il bambino è stato rapito e poi ucciso mercoledì scorso nella provincia meridionale di Kandahar, mentre la bambina è stata decapitata nella provincia orientale di Karpisa.

LA VICENDA Il portavoce del governo provinciale di Kandahar, Jawid Faisal, ha detto ai giornalisti che sono stati i talebani a decapitare il bambino, per vendicarsi del fatto che il fratello maggiore si fosse arruolato nella polizia afghana. Lo stesso Faisal ha detto che il bimbo è stato bloccato mentre dal distretto di Zherai si stava recando a quello di Panjwai. I suo cadavere, si è infine appreso, è stato abbandonato sul ciglio della strada. Intanto, sul caso più misterioso della bimba di sei o sette anni decapitata nella provincia di Kapisa, è stato Abdul Hakim Akhundzada, capo del distretto di Tagab della provincia di Kapisa, a fornire gli scarni elementi disponibili. Il corpo della bambina di cui non è nota l'identità, ha detto, è stato trovato in un giardino del villaggio di Jalu Khel. Oltre ad avere la testa staccata dal corpo, ha infine detto, il cadavere aveva subito anche la mutilazione delle due gambe. Non è ancora possibile dire, ha concluso Akhundzada, ci è responsabile dell'assassinio di questa bambina. L'orrore per questo duplice omicidio si somma a quello ancora non spento del massacro di 17 persone, fra cui due donne, sgozzate giorni fa durante una festa nella provincia di Helmand. La responsabilità di esso è stata attribuita ai talebani, che però l'hanno respinta.

BIMBA DI 3 MESI INGERISCE FARMACI E MUORE. BABY SITTER DI 10 ANNI ACCUSATA DI OMICIDIO

A soli dieci anni accusata di omicidio colposo.
  Succede in Maine, dove il procuratore ha accusato la bambina per la morte di una neonata di tre mesi. Brooklyn Foss-Greenaway, questo il nome della bimba morta, secondo quanto ha raccontato ai media statunitensi la madre Niky Greenaway, ha ingerito diversi farmaci ed è stata soffocata, oltre ad avere alcuni lividi sul corpo. La ragazzina - presunta killer - si trovava con la madre, anche lei accusata di omicidio, la quale stava facendo da babysitter a Brooklyn. La teenager del Maine, di cui ancora non è stata resa nota l'identità, ha così conquistato un triste record: è la persona più giovane dello Stato ad essere accusata di omicidio negli ultimi 25 anni.

DICHIARAZIONE CHOC' SONO I BAMBINI CHE SEDUCONO'

Pedofilia - Dichiarazione choc in Usa spesso è il bambino che seduce
Washington - E' stato costretto a smentire categoricamente la "lettura" delle sue parole padre Benedict Groeschel, esponente molto noto della chiesa cattolica. Il frate, fondatore dell'ordine dei francescani del "Rinnovamento" avrebbe dichiarato in pubblico che, spesso, sono i bambini a sedurre i preti.
Il diluvio di proteste e di polemiche ha costretto il frate a fare marcia indietro negando di aver pronunciato le parole contenute nell'intervista pubblicata dall'Huffington Post.

"La gente - avrebbe detto Groeschel - ha in mente quest’immagine di una persona che aveva cattive intenzioni – uno psicopatico. Ma non è così. Prendiamo il caso di un uomo con un serio esaurimento nervoso, e un giovane gli si avvicina. In un sacco di casi è il giovane – 14, 16, 18 anni – a sedurre il sacerdote”.
Citando poi le relazioni uomo-ragazzo spesso accettate nelle varie epoche e società, avrebbe addirittura sostenuto che i preti pedofili non dovrebbero essere puniti perchè inconsapevoli di commettere un crimine.
L'incredibile intervista è stata pubblicata dal National Catholic Register e poi ripresa dall'Huffington Post per questo motivo appare improbabile che l'editore, l'associazione dei "Legionari di Cristo" finita vittima dello scandalo pedofilia nel clero, abbia potuto commettere un errore.
In realtà, dopo le proteste e lo scandalo, l’NCR si è scusata sul proprio sito Internet ed ha rimosso l'intervista negando l'interpretazione fatta delle parole del frate.

DOCENTE DI RELIGIONE ARRESTATO PER PEDOFILIA

- Minaccia lo sciopero della fame Alberto Giannino, il docente di religione arrestato per pedofilia. L'uomo si dice innocente. Il suo legale ha chiesto al gip gli arresti domiciliari in considerazione che Giannino è incensurato. «La richiesta - spiega Groppo - scaturisce anche dal fatto che il mio assistito vive con la madre anziana, invalida al 100%, della quale si occupa giornalmente. Ed essendo diabetico ha bisogno di cure particolari, incompatibili con la carcerazione».  

L'EPISODIO - Giannnino, docente in un liceo a Milano, è detenuto nel carcere di Chiavari. I fatti sarebbero avvenuti il 24 agosto nella zona del Castello a Rapallo con due cuginetti tredicenni. Secondo l'accusa, il docente li avrebbe invitati a seguirlo, poi avrebbe offerto soldi per comprare una bibita ad uno ed ha cominciato a fare delle avances e a toccare nelle parti intime l'altro bambino. Ad un certo punto si è avvicinato un papà dei ragazzini che ha chiamato l'altro genitore e insieme hanno avvertito la polizia. L'uomo agli agenti ha negato tutto, ma del caso è stata informata la procura ed è scattato l'arresto. Davanti al gip, Giannino si è avvalso della facoltà di non rispondere.

giovedì 30 agosto 2012

RIAPRIAMO LE CASE CHIUSE

Il dibattito sulla riapertura delle case chiuse è un argomento sempre attuale. 

Fateci caso. Periodicamente riproposto da aspiranti leader politici alla Fabrizio Corona, è un topos in grado di raccogliere consensi in maniera trasversale. Provate a discutere durante una cena tra amici di matrimonio tra omosessuali, legalizzazione delle droghe leggere o più semplicemente di calcio e vedrete scatenersi il panico. Sorprendentemente, invece, un tema così delicato come la riapertura delle case chiuse è in grado di mettere d’accordo tutti, ultraconservatori e progressisti. Quando c’è una tale uniformità di opinioni o c’è disinformazione o è dittatura.
La disinformazione passa, com’è logico attendersi, attraverso i principali mezzi di comunicazione: TV e giornali. Negli ultimi anni, si è assistito a una progressiva normalizzazione socioculturale della prostituzione, che propone la escort come una figura glamour e vincente (ve la ricordate la patintissima Terry de Nicolò?). Troppo spesso il commercio del corpo femminile viene travestito da emancipazione sessuale, rendendo sempre più difficile da individuare il confine tra reale libertà di scelta e forte condizionamento culturale mediato da mezzi di informazione distorti. 

La dittatura, nel nostro paese, può essere individuata nel dualismo Rai-Mediaset, che ha innescato una spirale viziosa tale per cui a programmi volgari, degradanti e poveri di contenuti di una rete si risponde con programmi se possibile ancora più volgari, degradanti e poveri di contenuti da parte dell’altra, riducendo le possibilità di rappresentazioni di genere alternative e meno stereotipate. Gli scandali sessuali coinvolgenti la figura del premier S. Berlusconi di qualche anno fa, che vedevano la collocazione nel cast di fiction e reality show (targati Rai!!!) di ragazze, anche minorenni, il cui unico merito artistico consisteva nell’aver intrattenuto rapporti di varia natura con il proprietario della rete televisiva concorrente, rafforzano quanto appena detto.

Torniamo alle case chiuse. Luoghi tetri, all’interno dei quali le ragazze vivevano come recluse, schedate per motivi di polizia e ordine sanitario. Si poteva uscirne, certo, ma del passaggio restava traccia nel libretto sanitario e nei registri di polizia. Abolite nel 1958 dalla sen. Lina Merlin, con una legge che da allora è continuamente sotto attacco. Dopo la chiusura dei bordelli, molte delle prostitute si sono riversate in strada, scatenando proteste di benpensanti che invocavano maggior “pulizia” delle strade (avete mai sentito questa espressione recentemente? Magari in bocca a qualche esponente leghista….? Manco si parlasse di rifiuti indiffernziati). 

La globalizzazione ha prodotto un mercato di domanda/offerta di prestazioni sessuali praticamente inesauribile e ha rafforzato gli stereotipi creati dai clienti sulla diverisificazione e sulle qualità dei servizi offerti dalle donne di razze diverse.
La maggior parte delle prostitute che incontriamo sulle strade o nei locali, infatti, proviene da fuori Italia: ragazze nigeriane, ragazze dell’est europeo, ragazze cinesi e latinoamericane. Una sorta di menu à la carte che sollecita il palato del macho, già disorientato e incapace di reagire ai cambiamenti socioculturali portati avanti dal femminismo, che gli permette di esercitare la propria mascolinità, testare la propria superiorità data dal denaro e tornare quindi da vittorioso alla comunità di origine per vantarsi delle proprie prodezze sessuali. Secondo i dati dell’Oim (organizzazione internazionale migrazioni) il 79% delle vittime della tratta viene impiegato a scopi di sfruttamento sessuale. Il 18% per lavoro forzato, mentre il restante 3% se lo spartiscono la servitù domestica, il matrimonio forzato, il traffico di organi e l’accattonaggio. Le vittime della tratta, nella maggior parte dei casi, vengono allettate con false proposte di lavoro come modelle o parrucchiere e, una volte giunte nel paese di destinazione, costrette a battere sotto la minaccia di botte, di ritorsione contro figli e familiari rimasti in patria o di rituali magici come il voodoo.
Fermo restando che il diritto di riappropriarsi del proprio corpo in assenza di condizionamenti e di disporne in assolutà libertà, le evidenze ricavate da studi sul fenomeno della prostituzione coatta rivelano che la legalizzazione della prostituzione può aprire le porte alle mafie e facilitare la riduzione in schiavitù delle lavoratrici. In quei paesi dove la prostituzione è legalizzata accanto ai bordelli regolarmente registrati fioriscono numerosissimi bordelli clandestini dove le condizioni delle ragazze sono disumane, il loro diritto di rifiutare le pratiche richieste è azzerato, i controlli sanitari sono assenti e dove l’età delle medesime si abbassa pericolosamente. Nelle persone che hanno questa realtà tutti i giorni sotto gli occhi, si modifica la percezione del fenomeno prostituzione e si tende ad alzare la soglia di tollerabilità, chiudendo un occhio sulle numerose irregolarità che si possono verificare.
L’obiezione che nei paesi dove i casini sono legalizzati le prostitute abbiano la funzione di “placare” gli istinti maschili, permettendo alle donne “perbene” di andarsene a spasso senza rischiare di essere aggredite è disgustosa e sessita. Implica l’accettazione della violenza come parte integrante della natura maschile e del diritto del maschio di soddisfare i propri bisogni fisici. Se il piacere sessuale viene percepito come un diritto, significa che per qualcun altro c’è l’obbligo di appagarlo, e questa concezione dei rapporti uomo-donna è aberrante per chiunque aspiri a una vera emancipazione sessuale.
Il punto escalmativo nel titolo del pezzo andrebbe quindi cambiato in punto interrogativo: vi è necessità di maggiore informazione che liberi il campo dai luoghi comuni e dagli stereotipi sull’argomento, e permetta lo sviluppo di un dibattito politico e sociale costruttivo.

Picchiata a sangue dalla madre perché usava troppo Facebook

Una brutta storia di violenza a Roma. Un ragazzina, 12enne, picchiata violentemente dalla madre e inseguita in strada nel cuore della notte perché continuava a usare Facebook nonostante le fosse stato vietato. La ragazzina aveva il volto insanguito e correva, disperata, nel parco di via Cornelia, in zona Aurelia. Alcuni testimoni hanno visto la terribile scena e hanno chiamato la polizia che ha bloccato e denunciato la madre, una donna russa di 43 anni, che probabilmente era sotto l'effetto di alcol.

La ragazzina aveva diverse ferite a uno zigomo, a una palpebra, al naso e alla bocca. La lite era iniziata a casa perché la 12enne non avrebbe ubbidito alla madre che le aveva vietato di utilizzare Facebook. Poi le botte e la corsa in strada. La ragazzina è stata medicata all'ospedale San Carlo di Nancy e dimessa con dieci giorni di prognosi.

fonte globalist.it

‘Fan’ della polizia postale scatenati contro don Ruggeri Il caso di pedofilia

di Alessandro Mazzanti
Don Giacomo RuggeriDon Giacomo Ruggeri
Fano (Pesaro-Urbino), 29 agosto 2012 – "ORA ET LABORA" preghiera e lavoro. E’ la regola benedettina dell’eremo di san Silvestro, in cui don Giangiacomo Ruggeri da lunedì è ospite detenuto. Siamo a Fabriano, a una distanza di sicurezza (circa 50 chilometri), dal suo paese e parrocchia di Orciano, e da ogni possibilità di contatto reale con qualcuno collegato seppur indirettamente all’indagine della procura. Tra i fossi maleodoranti di Villa Fastiggi e le alture profumate di Monte Fano, sicuramente un qualche distacco c’è, e l’animo si dilata, anche se sono sempre «le mie prigioni». Non è chiaro ancora se il don seguirà con la stessa rigidità dei monaci benedettini la scansione della giornata tipo del monastero: sveglia (anzi ‘levata’, come recita il sito), poi alle 5.30 ufficio delle Letture, Lectio divina, lodi mattutine e così via prima del ‘silenzio notturno’ delle 21 circa.
Di certo, le uniche relazioni (a parte quelle telefoniche, contingentate: solo avvocato e parenti stretti) che il sacerdote accusato di atti sessuali con una minore di 14 anni, potrà avere, sono quelle con i monaci benedettini che in quel monastero abitano dal 1231, quando un certo Silvestro, aristocratico osimano poi chiamato da Dio, edifica il monastero. Questo sarà, come prescrive la legge, il nuovo carcere di don Giacomo per diverse settimane ancora. L’ora d’aria? Nel cortile del monastero. Il lavoro? Volendo (ma il don non ha obblighi), nel monastero ce ne sono, di tutti i tipi: restauro di libri, coltivazione della lavanda, miele, vendemmia per il genuino “verdicchio.
Chi ha scelto questo posto? Il legale, Gianluca Sposito, e i famigliari, la sorella e il fratello, lo hanno sottoposto fin da subito all’attenzione dei giudici che hanno dato poi il consenso. In base a quanto recita il sito del monastero, molto articolato, potrebbe essere davvero quello il luogo giusto di un giovane sacerdote caduto nel luglio scorso in tentazione carnale. «Chi entra in monastero — si legge infatti nella sezione ‘Proposta di vita’ — sa che è chiamato alla lotta. Contro chi? Contro le proprie passioni, i propri vizi, o come direbbe san Paolo contro “l’uomo vecchio”».
Chissà se da lì nascerà un uomo nuovo. Intanto, su Facebook, sulla scarcerazione di don Ruggeri nasce un caso legato ad alcuni commenti pesanti postati nel sito «Polizia postale official web site fan» (che non è un pagina ufficiale della polizia postale, ma una fan page amministrata da sostenitori della polizia postale). Immediata la reazione del legale di don Ruggeri, Sposito: «E’ gravissimo che vicende giudiziarie vengano commentate, con toni esasperati se non proprio penalmente rilevanti, da soggetti che di esse nulla conoscono. Da oltre un mese e mezzo si discute del video che ritrae Don Ruggeri e tanti pare abbiano una esatta conoscenza di cosa vi sia ritratto e quale sia stato l’effettivo comportamento del sacerdote, al punto da ritenerlo già meritevole di condanna morale e giudiziaria. Poi questa tempesta di commenti, dopo la scarcerazione, con fulcro nel sedicente profilo Facebook “Polizia Postale Official Web Site Fan”.  Al di là delle opportune verifiche sulla esatta identità dei soggetti che lo gestiscono e sulla effettiva vicinanza o appartenenza alle forze dell’ordine, ritengo ancor più grave il susseguirsi su questo profilo di commenti di soggetti che partono da dati sconosciuti o alterati, per finire col perpetrare essi stessi reati ben evidenti, e per i quali mi riservo di agire a tutela del mio cliente».

SCOPO DEL BLOG!!

Il blog "Il sesso degli angeli" nasce SOLO con l'intento di creare una rete sociale di gente che pur non conoscendosi sente il bisogno di unirsi e lottare per i propri diritti. 
Nessun altro scopo sottaciuto. 

Una società che si professa democratica e paritaria cela, nelle piccole cose, un forte maschilismo che piega il corpo della donna a mera funzione pubblicitaria. Di contro donne disposte per vanagloria o denari a svendere la propria pelle sono figlie di un consumismo sfrenato che cerca di conquistare notorietà e parità di diritti con mezzi che sviliscono le antiche lotte fatte allo scopo proprio dell'uguaglianza.
 Una società che sfrutta l'immagine dei bambini per pubblicizzare prodotti, non è una società giusta... Non siamo scaffali. Non siamo merce di scambio! Apriamo le menti..

Palestina, le sevizie dell’esercito israeliano sui bambini nei racconti dei soldati


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“Ne prendi uno, gli punti la pistola addosso. ‘Non sparare’, biascica quello pietrificato. Lui lo vede nei tuoi occhi che sei pazzo, che di lui non può fregartene di meno”. Hebron, 2006-2007. Intorno volano le pietre. Il sergente maggiore della brigata Kfir ha appena fermato un ragazzino che ne aveva lanciata una. A sei anni di distanza ha deciso di parlare. La sua è la diciassettesima delle 47 testimonianze raccolte nell’ultimo dossier di Breaking the silence, associazione di ex soldati delle Israel Defense Forces che dal 2004 racconta l’occupazione dei territori palestinesi. Ora il faro è puntato sui bambini e sulle loro vite sotto assedio. Tra pestaggi, intimidazioni e umiliazioni: “Eravamo cattivi, davvero. Solo più tardi ho capito che avevamo perso il senso della pietà”.
Arrestati, ammanettati, bendati. Picchiati. Lo stillicidio è quotidiano. Nablus, 2005: “Ogni giorno dovevamo entrare nei villaggi e occuparli. Dimostrare che il territorio era nostro, non loro. (…) Una volta l’autista del blindato è sceso, ha afferrato un ragazzino e ha cominciato a picchiarlo a sangue. Non stava facendo nulla, era seduto sul marciapiede”, racconta il sergente maggiore dell’Armored corps dell’Idf. Come gli altri 30 ex colleghi che hanno rotto il silenzio, era in servizio tra il West Bank e la Striscia di Gaza tra il 2005 e il 2011. Il picco della seconda Intifada è passato, la situazione è calma. Ma la macchina della violenza macina ancora odio e dolore. E ingoia bambini che in molti casi non hanno nemmeno 10 anni.
Hebron, 2010: “Non sai i loro nomi, non ci parli. Loro piangono, si cagano addosso”. Chi parla è un sergente della brigata Nahal: “Me ne ricordo uno, piangeva senza sosta. Alcune volte nella stazione di polizia non c’è spazio e allora te li devi portare in caserma, ammanettarli, bendarli e aspettare che la polizia se li venga a prendere. E quello stava lì, accucciato come un cane”. La loro colpa è nella maggior parte dei casi l’aver lanciato pietre. Per fermarli tutto è lecito, anche sparare. E i proiettili, anche se di gomma, fanno male. Nablus, 2006-2007: “Tu ne scegli uno e miri al corpo, dalla feritoia del blindato – racconta un sergente dei paracadutisti – mi ricordo che ne prendemmo uno al petto da 10 metri e quello cadde a terra, svenuto”.
“Per anni sono emersi rapporti sulle condizioni dei bambini sotto l’occupazione israeliana – ha spiegato al Guardian Gerard Horton, legale di Defence for Children International – ora a parlare sono gli stessi soldati. E gli episodi che raccontano non sono incidenti isolati, ma la naturale conseguenza della politica del governo israeliano”. Ad aprile un rapporto di Dfc aveva fatto luce sui numeri dei minori che ogni anno vengono arrestati: negli ultimi 11 anni sono stati 7.500, 2.301 nel solo 2011, nel 2010 erano stati 3.470. Tra il 2008 e il 2012, il 75% degli arrestati sarebbe stato sottoposto a violenze fisiche, si legge nel dossier “Bound, Blindfolded and Convicted: Children Held in Military Detention”, basato sulle testimonianze di 311 minori.
La Convenzione dell’Onu sui diritti dei bambini (Uncrc) è lontana anni luce. In base ai racconti, Israele avrebbe violato gli articoli 2 (discriminazione), 3 (interesse superiore del bambino), 37 (b) (ricorso precoce alla detenzione) e 40 (uso di manette) della Convenzione. Senza parlare del divieto di trattamenti crudeli, inumani o degradanti (articolo 37 a): “Mentre li facevamo scendere dalla jeep ho sentito uno di loro cagarsi addosso. Ma non poteva fregarmene di meno”, ha raccontato un sergente maggiore della brigata Nahal. “Pochi giorni dopo il loro arresto – si legge nel dossier di Dfc – i due terzi dei minori vengono trasportati in prigioni situate in territorio israeliano”. In violazione dell’articolo 76 della Quarta Convenzione di Ginevra.
Un portavoce delle forze di difesa israeliane ha spiegato che Breaking the silence non ha voluto rivelare i nomi dei 30 soldati. “Lo scopo di questa ricerca – ha detto al Guardian – è solo quello di gettare ombre sull’Idf, che ha sempre invitato l’organizzazioni a trasmettere immediatamente reclami o sospetti riguardanti condotte improprie alle autorità competenti. In linea con i nostri impegni etici, gli incidenti in questione saranno oggetto di studi approfonditi”.
La pietà è morta nel West Bank, ma a distanza di anni alcune coscienze si risvegliano. E ricordano: “Quel ragazzino lì, sdraiato a terra, che implorava di non essere ucciso, poteva avere 9 anni – racconta un sergente della brigata Nahal in missione ad Assoun, vicino Qalqiliya – ho pensato ai nostri figli. Può un bambino pregare di non essere ucciso con una pistola puntata alla testa?”.

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Quattro donne. Quattro minatrici. Quattro volti, sotto ai caschi gialli, pronti alla lotta e all’occupazione della miniera di carbone di Nuraxi Figus. Silvia, Giuliana, Valeria e Valentina; la quinta moschettiera, Alessandra, è a casa per maternità, ma anche il suo cuore è a 400 metri sotto il livello del mare. Con le compagne e i ben più numerosi compagni, che si danno il cambio, trenta alla volta, in turni di otto ore, per raggiungere l’obiettivo di far arrivare la loro voce a Roma. E per farsi sentire più forte hanno già fatto presente di avere là sotto nelle gallerie 350 chili di esplosivo, minacciando di “essere pronti a tutto”. Anche la parte rosa di questa protesta è nera come lo è il carbone.

Proprio con l’esplosivo ha avuto a che fare Silvia Marongiu: nel 1986, quando ha iniziato a lavorare in miniera, il suo lavoro consisteva nel trasportare i candelotti sottoterra dalla superficie. Oggi Silvia ha 48 anni . “Come parecchi di noi la mia storia tra quei cunicoli ha origini antiche. Mio nonno Adolfo lavorava già nella Carbosulcis, che all’epoca si chiamava Carbosarda”. E anche suo padre, Gavino, finì in Carbosarda. Non come il nonno, che guidava i trenini nei tunnel, oggi sostituiti dai pick up. “Papà gestiva il patrimonio immobiliare costruito a Carbonia in epoca fascista per i lavoratori. Con la crisi della miniera, tra il 1957 e il ’61, decise di andare via. Ci siamo trasferiti in Francia, tra Grenoble e Lione. Poi a Milano, dove sono nata io. Siamo rimasti in Lombardia fino ai mie sette anni, per poi ritornare nella casa che non avevo ancora visto, a Carbonia. E indovinate dove trovò impiego mio padre? All’Alcoa, l’altra azienda oggi sull’orlo del tracollo. Papà passò dal carbone all’alluminio . Ma tutta la mia storia è una cronaca di operaismo e immigrazione. Perché la mamma, Dora, era figlia di un siciliano intraprendente, Vincenzo, che come molti cercò fortuna al nord. Prima a Torino, poi in Francia. Si affidò agli scafisti dell’epoca. Persone senza scrupoli che accompagnavano al confine e poi ti lasciavano al tuo destino. Finì a lavorare nella stessa fabbrica dove poi arrivò mio papà, che così conobbe la mamma”. Silvia ha una figlia di 7 anni, un mutuo di 750 euro al mese e uno stipendio di 1500. Finché durerà la Carbosulcis almeno. “Spero di poterci lavorare ancora altri dieci anni. Perché al netto dell’ultima riforma delle pensioni è l’obiettivo per una paga neppure dignitosa”.

Da sinistra, Valeria, Alessandra e Giuliana. Sopra gli operai Alcoa e Eurallumina a Cagliari
VALENTINA Zurru, 45 anni, ne ha passati già 26 su e giù, dal sole alle tenebre. Il suo lavoro è non far crollare la terra sui minatori, per semplificare dice di “mettere i bulloni alle gallerie”. Ama il suo mestiere, è battagliera, pronta “a sfilare a Roma davanti ai palazzi del potere”, perché per tutta questa polvere e fango ha anche sacrificato la sua vita privata. “Non ho figli e in gran parte il mestiere che faccio ha pesato sulla scelta”. Giuliana Porcu, 45 anni, è una minatrice dal 1987. È un quadro aziendale, responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in pratica gira le gallerie per svolgere l’analisi chimica e assicurarsi dell’adeguata presenza di ossigeno. “Sì, ma entrai come operaia, fummo assunte in sei all’epoca, tutte operaie, dopo aver conseguito il diploma di perito minerario a Iglesias”. Ha anche un vanto Giuliana: “La mia nonna. Era la cernitrice Pasqualina. Lavorava il carbone una volta portato in superficie insomma”. Il padre Giovanni? Un altro minatore, ma metallifero. “Mio figlio ha 13 anni e frequenta il primo liceo. Se un giorno fosse assunto in miniera non vedo perché dovrei esserne scontenta. Mio papà ha 90 anni, io nonostante tutto questo tempo là sotto sono in buona salute, quindi, in caso, ben venga. Soprattutto se non chiuderanno la Carbosulcis”.
VALERIA Santacroce è la meno “anziana” del gruppo. Assunta dall’azienda della Regione Sardegna nel 2007. “Sono ingegnere elettrico. Ho passato parecchi anni in Alcoa, con contratti a tempo determinato. Poi l’occasione Carbosulcis, prima come capo cantiere di una ditta esterna”. Oggi è la responsabile della sicurezza: “Non faccio altro che certificare che tutto rispetti gli standard, con continui sopralluoghi. “Sinceramente non avrei proprio immaginato che un giorno sarei finita anche io in miniera”. Già, perché nonno Bruno era operaio a Seruci, pozzi a pochi metri da quelli di Nuraxi Figus, sempre della Carbosulcis. “Lui faceva il lavoro più duro, l’estrazione del carbone. In un’epoca in cui le condizioni professionali erano ben peggiori. Ritornava a casa spesso letteralmente nero. Se lo è portato via un tumore nel 1991. E aveva la silicosi, malattia provocata dalla continua esposizione a polveri, al cento per cento. Mio papà Claudio ricorda bene quei giorni. Lui, invece, è un pensionato Alcoa, ci ho parlato prima. Mi ha detto che gli sembra il 1974, già si parlava di crisi. Di chiudere tutto”. Di annientare uomini, e donne, del Sulcis.

mercoledì 29 agosto 2012

L'ITALIA HA BISOGNO DI FIGLI NON DI OMOSESSUALI

”L’Italia ha bisogno di figli, non di omosessuali”. Questo il manifesto di Forza Nuova Abruzzo. In caso il messaggio non fosse stato abbastanza chiaro, il coordinatore regionale Marco Forconi ha aggiunto: “Proviamo ribrezzo e repulsione per quella che consideriamo una patologia”.
Il manifesto in questione è stato affisso nei giorni scorsi ad Ortona (Chieti) in occasione di una campagna informativa promossa dall’Arcigay, che aveva allestito un banchetto nel centro della cittadina.
Sottolineando che il manifesto verrà riproposto a breve in tutto l’Abruzzo, ”anche con volantinaggi e presidi informativi”, Forconi sostiene che il messaggio si concentra esclusivamente sulla questione demografica e dei diritti civili: ”Noi rispettiamo la sessualità privata, pur non comprendendo lo stare insieme tra persone dello stesso sesso perché siamo per l’ordine naturale delle cose, ma con il manifesto esprimiamo la nostra più totale contrarietà alle unioni civili, ai matrimoni e alle adozioni”.
Dal partito di estrema destra fanno sapere che per evitare che il messaggio venga equivocato ed etichettato come omofobo, Forza Nuova ”spiegherà le sue ragioni in piazza e la prima provincia sarà proprio quella di Chieti.
Secondo Forconi “il manifesto non è omofobo. La nostra omofobia sta nel fatto che proviamo ribrezzo e repulsione. Per i gay l’omosessualità è normale, per noi è una patologia, ma con il nostro messaggio non vogliamo entrare nel merito della patologia”.

Durissima la presa di posizione delle associazioni per la difesa dei diritti degli omosessuali e, più in generale, per la tutela di ogni diritto: ”Apprendiamo con sdegno e indignazione dei manifesti affissi dal partito neofascista Forza Nuova – scrivono in una nota Abruzzo Social Forum, Jonathan – Diritti in Movimento, PeaceLink Abruzzo e Antimafie Rita Atria -. Il partito di estrema destra afferma che ci sono persone, gli omosessuali, che ‘non servono’ all’Italia, a cui invece servirebbero, riprendendo una campagna portata avanti da Benito Mussolini negli Anni Trenta, ‘figli”’
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Parlando di un ”gravissimo segnale di intolleranza che non vogliamo e non possiamo sottovalutare”, le associazioni respingono ”con forza questa campagna di odio ideologico e omofobo” e chiedono ”a tutti gli attivisti, i militanti, le forze sociali, civili e politiche di condannare e di respingere il razzismo e l’omofobia delle formazioni neofasciste e di sostenere le campagne democratiche e civili di difesa e affermazione dei diritti di tutte le persone, qualunque sia la loro scelta sessuale o la loro provenienza geografica”.

PROSTITUZIONE MINORILE A CAGLIARI

Cagliari, da Sant'Avendrace a viale Elmas Il fenomeno delle prostitute minorenni Baby-luciole in via santa gilla
La provenienza è quasi sempre la stessa: i paesi dell'Est. L'età, invece, è più difficile da decodificare ma la certezza è solo una: le prostitute minorenni a Cagliari sono un fenomeno reale. Da viale Elmas a Sant'Avendrace le "piccole" sono protette dalle lucciole più grandi. E, nonostante i controlli della polizia, l'individuazione delle prostitute diventa sempre più complicata.

Difficile censire il fenomeno ma il campanello l'allarme per il dilagare delle prostituzione minorile è già scattato da qualche tempo. E' concreto. Viale Trento, via Po, via Simeto, via Santa Gilla e viale Sant'Avendrace. Sono solo alcune delle vie dove le "piccole"si prostituiscono. Tutti lo sanno. Come conoscono gli orari. Più complicato capire quanto sono e dove abitano. La polizia e numerosi associazioni di volontariato da molto tempo seguono le baby-prostitute cercando di dissuaderle o capire il mercato che c'è alle loro spalle. Ma per la stessa polizia e carabinieri è difficile intercettarle anche perché sono "protette" dalle colleghe più adulte.

MINACCE A LYDIA CACHO, GIORNALISTA CONTRO LO SFRUTTAMENTO DELLE DONNE

Lydia Cacho, giornalista messicana impegnata nella lotta per i diritti delle donne e nella difesa dei minori dallo sfruttamento pedopornografico, è stata costretta a lasciare il Messico per nuove violente minacce di morte.

Sono anni che Cacho subisce la violenza dei potenti per non aver avuto paura di denunciare una fitta rete di  sfruttamento della prostituzione minorile e la tratta di esseri umani in Messico ad opera di imprenditori e politici (per approfondimenti Lydia Cacho,  Memorie di un'infamia, ed. Fandango, 2011).
Lydia Cacho è una donna coraggiosa che ha saputo creare, con l'aiuto di molte persone altrettanto valorose, una rete a sostegno delle donne e ragazze vittime dello sfruttamento sessuale. Cacho è un esempio di altruismo e di impegno e, come già successo per Rossella Urru, suscita profonda ammirazione per la grande umanità che l'ha spinta al sacrificio personale, in nome di valori improcrastinabili.
Se, come si legge nei suoi libri, spesso le istituzioni messicane hanno insabbiato il suo lavoro e le sue indagini (arrivando addirittura ad arrestarla) al contrario colleghi, operatori del sociale,  avvocati e persone comuni hanno saputo sostenere l'impagabile volontà e forza d'animo della scrittrice.
I valori da lei difesi, a rischio della vita, sono stati quindi assunti da una comunità priva di potere politico, ma detentrice di un potere di comunicare con le persone che ha fatto vacillare il silenzio imposto dalle autorità messicane. Lydia Cacho e i colleghi CIAM di Cancún (organizzazione senza scopo di lucro che promuove i diritti umani, l'uguaglianza e si adopera per sradicare tutte le forme di violenza di genere) hanno avuto la capacità e la tenacia di attirare l'attenzione e scatenare una notevole eco su vicende che i media ufficiali, per ragioni a volte impronunciabili, stentano a diffondere.
Possiamo noi aiutare oggi Lydia di Cacho, ripagandola in qualche modo del suo impegno? Se per Rossella Urru la rete ha avuto il merito di diffondere informazioni sul suo rapimento, per Lydia Cacho potrebbe arrivare a obbligare i media a parlarne e, conseguentemente, le istituzioni internazionali a impegnarsi nella difesa del sacrosanto diritto di una cittadina onesta di poter vivere nel proprio paese, perseguendo, una volta per tutte, i responsabili del calvario che Cacho subisce da anni, soprattutto da quando, nel 2005, ha pubblicato il libro I demoni dell'Eden.
Ho da poco proposto su Twitter di diffondere l'hashtag #LydiaCacho per pubblicare le notizie riguardanti l'esilio forzato della giornalista. Non servirà a molto, è ovvio, ma se ognuno di noi pubblicasse solo poche parole al giorno delle denunce fatte dalla giornalista, forse il silenzio imposto dalle autorità messicane potrebbe essere finalmente rotto.
E io comincio da qui: "Possono cancellarmi dai media, possono anche eliminarmi fisicamente. Quel che mai potranno negare è l'esistenza di questa storia, eliminandola mia voce e le mie parole. Finché sarò viva continuerò a scrivere, e finché scriverò continuerò a essere viva". (da Memorie di un'infamia, pag 258).