Questo blog nasce con l'intento di creare una rete sociale di collaborazione tra gente che pur non conoscendosi lotta, si indigna e protesta per evitare la violenza, la pedofilia. Ognuno può dire la sua.. uniamoci! :) grazie
sabato 18 agosto 2012
Il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, vestirà i
paramenti firmati Giorgio Armani domani nella messa della nuova chiesa
di Pantelleria, messa che sarà trasmessa, alle 10,45, in diretta su
Raiuno. Lo stilista ha creato i paramenti proprio per il nuovo luogo di
culto dell'isola.
Era stato monsignor Domenico Mogavero a chiedere allo stilista, che ha una casa nell'isola, di realizzare e regalare quattro paramenti dei quattro colori liturgici: bianco, rosso, verde e viola.
Mogavero nel maggio 2011 aveva indossato per la prima volta i paramenti griffati in occasione dell'inaugurazione del sagrato della nuova chiesa pantesca. Sulla stoffa sono riportati i segni della terra e del mare dell'isola nella quale lo stilista viene in vacanza da 37 anni e di cui dal 2006 è cittadino onorario.
Era stato monsignor Domenico Mogavero a chiedere allo stilista, che ha una casa nell'isola, di realizzare e regalare quattro paramenti dei quattro colori liturgici: bianco, rosso, verde e viola.
Mogavero nel maggio 2011 aveva indossato per la prima volta i paramenti griffati in occasione dell'inaugurazione del sagrato della nuova chiesa pantesca. Sulla stoffa sono riportati i segni della terra e del mare dell'isola nella quale lo stilista viene in vacanza da 37 anni e di cui dal 2006 è cittadino onorario.
un vescovo griffato Armani...San Francesco non aveva capito nulla!
Il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, vestirà i
paramenti firmati Giorgio Armani domani nella messa della nuova chiesa
di Pantelleria, messa che sarà trasmessa, alle 10,45, in diretta su
Raiuno. Lo stilista ha creato i paramenti proprio per il nuovo luogo di
culto dell'isola.
Era stato monsignor Domenico Mogavero a chiedere allo stilista, che ha una casa nell'isola, di realizzare e regalare quattro paramenti dei quattro colori liturgici: bianco, rosso, verde e viola.
Mogavero nel maggio 2011 aveva indossato per la prima volta i paramenti griffati in occasione dell'inaugurazione del sagrato della nuova chiesa pantesca. Sulla stoffa sono riportati i segni della terra e del mare dell'isola nella quale lo stilista viene in vacanza da 37 anni e di cui dal 2006 è cittadino onorario.
Era stato monsignor Domenico Mogavero a chiedere allo stilista, che ha una casa nell'isola, di realizzare e regalare quattro paramenti dei quattro colori liturgici: bianco, rosso, verde e viola.
Mogavero nel maggio 2011 aveva indossato per la prima volta i paramenti griffati in occasione dell'inaugurazione del sagrato della nuova chiesa pantesca. Sulla stoffa sono riportati i segni della terra e del mare dell'isola nella quale lo stilista viene in vacanza da 37 anni e di cui dal 2006 è cittadino onorario.
Palermo:abusa di un bambino per venti euro
Un bambino romeno di 10 anni, che era stato lasciato in strada dalla
madre a mendicare, è stato violentato da un quarantacinquenne, a
Palermo, il quale è stato arrestato grazie alla testimonianza di alcune
donne. Il piccolo era stato lasciato in strada dalla madre, nei pressi
della stazione ferroviaria, per chiedere l' elemosina ed é stato
avvicinato dall'uomo, A.M.. Alcune donne, che hanno assistito all'abuso
sessuale dalla finestra del loro ufficio, hanno avvertito la polizia.
Il bambino, sentito dagli agenti, alla presenza di una psicologa e di un interprete di lingua romena, ha confermato di aver subito violenza sessuale da parte dell'uomo incontrato casualmente alla stazione dei pullman. Il bambino avrebbe tentato di scappare due volte ma l'uomo lo ha ripreso. Alla fine degli abusi l'indagato ha offerto alla vittima 20 euro.
Il bambino, sentito dagli agenti, alla presenza di una psicologa e di un interprete di lingua romena, ha confermato di aver subito violenza sessuale da parte dell'uomo incontrato casualmente alla stazione dei pullman. Il bambino avrebbe tentato di scappare due volte ma l'uomo lo ha ripreso. Alla fine degli abusi l'indagato ha offerto alla vittima 20 euro.
venerdì 17 agosto 2012
Scovate 1300 foto pedopornografiche
Milletrecento fotografie delle parti intime di bambini e bambine,
scattate al mare, approfittando del gran caldo. La polizia di San
Benedetto del Tronto ha arrestato con l'accusa di produzione di materiale
pedopornografico un uomo di 53 anni, S. L., che sarebbe anche l'autore
degli scatti.
Ad avvertire gli agenti è stato il titolare di uno studio fotografico, dove l'uomo aveva portato a sviluppare alcune copie delle immagini. Il Commissariato, che ha condotto le indagini insieme alla Polposta, ha fermato S. L. nel momento in cui è andato a ritirare le foto.
Ad avvertire gli agenti è stato il titolare di uno studio fotografico, dove l'uomo aveva portato a sviluppare alcune copie delle immagini. Il Commissariato, che ha condotto le indagini insieme alla Polposta, ha fermato S. L. nel momento in cui è andato a ritirare le foto.
Massacrata perchè vuole togliere il velo
Massacra a calci e pugni la moglie, perché ha deciso di togliere il velo.
Un egiziano di 19 anni ha massacrato selvaggiamente la moglie di 20 anni, facendola finire in ospedale solo perché la giovane, a causa del gran caldo, si era levata il velo che teneva sul volto, in mezzo alla strada.
La coppia stava percorrendo una via del centro, quando la ventenne, soffocata dal gran caldo, ha chiesto al marito se poteva levare il velo che teneva sul volto.
Lui avrebbe iniziato ad urlare nella speranza, probabilmente, di intimorirla.
La ragazza però non riusciva più a respirare ed ha tolto il capo musulmano nonostante il divieto dell'egiziano.
Il marito, per la mancanza di rispetto, l'ha massacrata minacciando anche i passanti che nel tentativo di scongiurare il pestaggio volevano intervenire in soccorso alla donna.
L'uomo è stato denunciato dalla polizia, per lesioni personali.
Un egiziano di 19 anni ha massacrato selvaggiamente la moglie di 20 anni, facendola finire in ospedale solo perché la giovane, a causa del gran caldo, si era levata il velo che teneva sul volto, in mezzo alla strada.
La coppia stava percorrendo una via del centro, quando la ventenne, soffocata dal gran caldo, ha chiesto al marito se poteva levare il velo che teneva sul volto.
Lui avrebbe iniziato ad urlare nella speranza, probabilmente, di intimorirla.
La ragazza però non riusciva più a respirare ed ha tolto il capo musulmano nonostante il divieto dell'egiziano.
Il marito, per la mancanza di rispetto, l'ha massacrata minacciando anche i passanti che nel tentativo di scongiurare il pestaggio volevano intervenire in soccorso alla donna.
L'uomo è stato denunciato dalla polizia, per lesioni personali.
Quattro morti e una liberazione
Se, come scriveva Peter Weiss, nel celebre e controverso discorso
Laocoonte o Dei limiti della lingua, tenuto in occasione della consegna
del Lessing-Preis nel 1965, “in principio erano le immagini”, sono
immagini di tristezza quelle abitano questi nostri mestissimi giorni.
Quattro morti fra venerdì e domenica, crudeli come tutte le morti, forse anche di più. La prima a morire, alle 11,30 del mattino di venerdì, Fakhra Younas, ex ballerina pakistana diventata poi simbolo della lotta delle donne sfregiate con l'acido, che si è gettata da una finestra del sesto piano della palazzina di Tor Pagnotta, a Roma, dove viveva o meglio conviveva con la disperazione di “un volto cancellato” e di una identità disfatta.
Una vita di stenti la sua, iniziata con un matrimonio d'amore, quasi una mosca bianca fra i mille matrimoni combinati in India, ma subito trasformata in una incubo di violenze e ricatti.
La gelosia del marito Bilal, potente politico locale e poi, come accade troppo spesso in Pakistan, il volto sfregiato con l'acido, versatogli addosso di notte, da quell’uomo che temeva di essere lasciato.
Così, tredici anni fa, inizia l'incubo, la consapevolezza di essere sola a lottare contro la famiglia di un potente, il coraggio di chiedere il divorzio e gli sforzi per cambiare.
Accolta dalla associazione italiana Smileagain, 11 anni fa, ha cercato, intervento dopo intervento, di ricostruirsi un volto e giorno dopo giorno una vita.
Quando è arrivata nel nostro Paese aveva la faccia deturpata e il collo talmente rattrappito dalle cicatrizzazioni da non consentirle più di alzare la testa.
Tanti interventi e tanto dolore, raccontati nel libro “Il volto cancellato”, scritto con la giornalista Elena Doni: un importante documento di denuncia, un coinvolgente viaggio nei costumi e nelle tradizioni di un paese lontano, ma anche e soprattutto una vicenda simbolo, in cui si tutte le donne umiliate, offese, sopraffatte dall’ignoranza e dalla prepotenza degli uomini, ma tenaci e capaci di trovare la forza per risorgere e tornare a camminare a testa alta.
Ma quella forza, infine, è venuta meno, anche se ripeteva che “perdonare è possibile” e si deve andare avanti.
Il marito, vivo, vegeto e risposato, per quel gesto ha fatto solo sei mesi di carcere ed ora il figlio diciassettenne, Nauman, che ha vissuto sempre con lei dice sconsolato che il grande coraggio di sua madre rimarrà per sempre il simbolo della lotta delle donne islamiche per l'emancipazione.
La giornata internazionale contro la violenza sulle donne è stata istituita per la prima volta nel 1991, per la commemorazione della morte delle tre sorelle Mirabal, attiviste della repubblica Dominicana brutalmente assassinate il 25 novembre 1961 perché si opponevano al regime dittatoriale del loro paese.
La loro storia è stata quindi scelta come emblema a livello mondiale di tutte le donne vittime della violenza di genere.
Nella realtà, ancora oggi, la violenza sulla donne è trascurata, non le si da la giusta importanza e possiamo senz’altro dire che né i media né tanto meno le istituzioni facciano qualcosa di reale per cambiare le cose. Se è accertato che il 70% degli stupri ha luogo fra le mura domestiche, per mano di mariti, fidanzati, familiari e amici che sono i primi da cui dovremmo sempre proteggerci, sappiamo bene che è raro trovare queste notizie sulla prima pagina di un giornale soprattutto se si tratta di italiani, magari anche di buona famiglia.
Tutto questo però ci deve far capire quanto sia calibrato e distorto il discorso pubblico sulla violenza nei confronti delle donne il cui unico fine sembra quello di scatenare teoremi fatti di razzismo, di xenofobia e paura di tutto ciò che è diverso da noi, visto come il pericolo assoluto da cui dobbiamo stare lontane: da una parte il vogliono criminalizzare i migranti e indirizzare verso di loro tutto il male che in realtà è ben più subdolo e diffuso nella nostra società, dall’altra il messaggio che passa è che dobbiamo avere paura, sempre, di uscire, di girare da sole, di andare luoghi diversi da quello della nostra dolce casa.
Sempre venerdì, alle 14 ora italiana, a migliaia di miglia di distanza, nell’avamposto “Ice”, presidiato dai soldati italiani della Task Force South-East, del 1° Reggimento Bersaglieri un attacco a colpi di mortaio, ha ucciso Michele Silvestri, sergente di 33 anni di Monte Procida e causato il ferimento di cinque altri commilitoni, fra cui una donna, alcuni in gravissime condizioni.
Con Silvestri l'elenco delle nostre vittime in Afganistan sale a cinquanta, mentre i Servizi segreti avvertono che, di questo passo, il processo di transizione rischia di fallire.
L'avamposto, secondo quanto si è appreso, era stato preso di mira anche al mattino, sempre a colpi di mortaio, che però erano finiti fuori dal perimetro della base.
Nel primo pomeriggio di venerdì l'attacco è stato ripetuto e, stavolta, alcune bombe sono andate a segno.
Dopo il secondo attacco, sempre secondo quanto è stato possibile apprendere, si sono alzati in volo degli elicotteri Mangusta che hanno “neutralizzato” le postazioni nemiche.
Davvero magra consolazione se si considera il sangue versato per una guerra che appare sempre più inutile e insensata.
La salma di Michele Sivestri è rientrata a Ciampino ieri e nell’accoglierla il padre ha avuto un malore. Due dei militari feriti, fra cui la donna, sono in gravi condizioni e si teme per la loro vita.
“L'Italia continua a pagare purtroppo un altissimo prezzo di sangue e questo ci addolora profondamente. La missione italiana in Afghanistan continua comunque a essere decisiva per la tutela della libertà, della sicurezza e della pace”, ha detto Schifani, ma noi, con molti altri, continuiamo a dubitarne, in quella che appare sempre più una guerra di occupazione che miete inutili vittime fra civili e militari.
Una guerra che, come ogni guerra, non piaceva ad Antonio Tabucchi, morto sabato a Lisbona, vinto dal cancro a 68 anni, dopo una carriera lunga 36 anni, iniziata con il libro "Piazza d'Italia", pubblicato da Bompiani nel 1975. L'anno scorso, "Racconti con figure", edito da Sellerio.
Fortemente legato al Portogallo e alla cultura lusitana in genere, Tabucchi è stato il maggiore esperto e traduttore di Fernando Pessoa, appassionato di politica e sospinto senza sosta al confronto di idee.
Nel 1994 divenne famoso al grande pubblico grazie a "Sostiene Pereira", ambientato in Portogallo durante la dittatura di Salazar, da cui Roberto Faenza trasse il film omonimo con Marcello Mastroianni, divenuto il simbolo della lotta per la libertà di informazione nei regimi autoritari.
Nel 2009, già ammalato, collaborò con Oliviero Beha, Maurizio Chierici e Marco Travaglio, alla scrittura del nuovo giornale "Il Fatto Quotidiano".
I suoi libri sono tradotti in quaranta lingue e alcuni dei suoi romanzi, non solo il più celebre, sono stati portati sullo schermo da registi italiani e stranieri (Roberto Faenza, Alain Corneau, Alain Tanner, Fernando Lopes) o sulla scena da rinomati registi teatrali (Giorgio Strehler e Didier Bezace fra gli altri).
A Lisbona, città natale della moglie, dove dal 1985 al 1987 era stato anche direttore dell'Istituto Italiano di Cultura, viveva abitualmente per sei mesi l'anno, trascorrendo gli altri sei in Toscana, dove insegnava Letteratura all'Universitá di Siena.
"Casa Pessoa" ha previsto per il 2 aprile dalle 10.30 del mattino, una”maratona di lettura integrale di Requiem” ed il presidente della Fondazione Pedrosa, ha commentato “gli scrittori continuano a vivere finché li leggiamo”, intendo anche dire che siamo davvero vivi finché leggiamo e pensiamo.
Tabucchi non ne faceva passare nessuna a nessuno, ha ricordato Marco Travaglio su il Fatto Quotidiano, citando il caso della critica dello scrittore a Ciampi che aveva aperto “ai ragazzi si Salò” che causò l’abbandono, da parte del senatore Andrea Manzella, consigliere del Quirinale, della presidenza dell’Unità, reo, con Le Monde di aver pubblicato quella critica di Tabucchi.
“Che razza di Nazione è quella dove uno scrittore può insolentire il capo dello Stato sull’Unità e su Le Monde?”, si domandò Bruno Vespa, convinto che il dovere dell’intellettuale sia quello di servire e plaudire sempre il potere, mai di criticarlo. Uno dei suoi bersagli prediletti era Giuliano Ferrara, il più servile dei servi berlusconiani eppure sempre considerato “intelligente” da chi a Berlusconi avrebbe dovuto opporsi. Una sera, a Porta a Porta, Ferrara definì l’Unità di Furio Colombo e Antonio Padellaro “giornale omicida” e accusò Colombo e Tabucchi di essere nientemeno che i “mandanti linguistici del mio prossimo assassinio” (che naturalmente non ci fu).
Qualche anno dopo rubò letteralmente un articolo che Tabucchi aveva scritto per Le Monde, in cui ricordava i trascorsi di Ferrara come spia prezzolata della Cia, e lo pubblicò in anticipo sul Foglio. Tabucchi gli fece causa al Tribunale di Parigi, e la vinse.
Ma Tabucchi, che per me è stato, con Pasolini e Sciascia, il più intelligente polemista dell’ultimo mezzo secolo, colpiva anche a sinistra.
Ad esempio, intervenendo in collegamento da Parigi nella famosa puntata di Annozero con Luigi De Magistris e Clementina Forleo, che poi costò il posto e la carriera a entrambi i magistrati coraggiosi, mostrando, più e contro lo stesso Santoro, di aver capito che, su quelle due vicende, si giocava un bel pezzo della nostra democrazia, intesa come separazione dei poteri.
Un’altra volta, sempre da Santoro, si parlava della legge bavaglio sulle intercettazioni e lui, col suo feroce e placido candore, tipico dell’italiano all’estero, ricordò che i parlamentari non possono essere intercettati: se la loro voce viene captata da una cimice è perché parlano con qualche delinquente intercettato: “Se i nostri politici telefonassero alla Caritas o alla Comunità di Sant’Egidio nessun giudice li ascolterebbe”.
Era un uomo onesto e coerente Tabucchi, che prese carta e penne per difendere Travaglio, con cui spesso non era d’accordo, da una campagna orchestrata dal Corriere sulla sua presunta “misoginia” per una critica a Ritanna Armeni, che faceva da spalla a Ferrara a “Otto e mezzo”.
Un uomo onesto e sensibile che non le mandava a dire e per questo era stato tenuto ai margini e guardato con sospetto dall’Italia che conta, politica ed intellettuale.
E nonostante Napolitano plauda, nel suo telegramma di cordoglio al suo “impegno civile”, fa bene la moglie a lasciare al Portogallo la soddisfazione dei funerali.
L’ultima morte sabato, con il 37enne Vigor Bovolenta, fulminato da un infarto su un campo di Volley, mentre difendeva i colori della sua Forlì, contro la Lube, a Macerata.
Aveva esordito con il Messaggero Ravenna, nel 1990, maglia con la quale aveva vinto uno scudetto tricolore, 3 Coppe del Campioni, 1 Coppa Italia, una Coppa Cev e due Supercoppe Europee.
Poi la sua carriera era proseguita a Ferrara, Roma, Palermo, Modena (campione d’Italia 2001-02), Piacenza, Perugia, e, da ultimo Forlì.
Era stato in Nazionale, soprannominato“iradiddio”, un uomo gigantesco ed inesauribile, tutto riccioli e salti, capace di commuoversi fino alle lacrime quando Ciampi, nel 2000, gli assegnò l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica.
In Romagna, la sua terra d’adozione, aveva salutato la serie A e spinto dall’inesauribile passione, aveva deciso di rimanere in campo giocando in B2 ed iniziando una nuova carriera dirigenziale.
Si è sentito male nel corso della partita a Macerata, dopo pochi minuti di gioco e a nulla sono valsi gli sforzi dei soccorritori che hanno provato a lungo a rianimare il giocatore.
E’ stato trasportato all'ospedale di Macerata, si è spento, lasciando la moglie e 4 figli, ricordato sui campi della Serie A con un minuto di silenzio.
L’unica buona notizia in un triste week-end di lutti e amarezze, la liberazione ed il ritorno alla vita di Claudio Colangelo, medico 61enne in mano ai guerriglieri maoisti con Paolo Bosusco (che resta prigioniero), per undici, terribili giorni. Nel corso della prigionia “ci siamo mossi nella giungla”, ha detto agli intervistatori e il trattamento è stato buono. E ancora: “Hanno fatto di tutto per venirci incontro”, confermando che il capo dei maoisti, che si chiama Panda, si è rivelato “buono” di nome e di fatto. “Erano tutti molto gentili. Anche i bambini...perché tali mi sembravano alcuni di loro, e poi anche le donne, tutti quanti mi hanno trattato bene”. Anche il mangiare, date le circostanze, non è stato malaccio. Ora Colangelo, si augura una pronta liberazione dell’amico Paolo Bosusco, ancora nella mani dei guerriglieri, che avrebbe, come lui, contratto una forma di malaria anche se lieve e non particolarmente grave.
La liberazione è avvenuta a sorpresa, proprio mentre si temeva il peggio. Il tutto è accaduto mentre nelle ultime ore il gruppo dei maoisti era rimasto coinvolto in una lotta interna tra diverse fazioni.
Qualche giorno fa un poliziotto indiano era stato rapito e quindi giustiziato immediatamente con dei colpi di fucile alla testa mentre nelle stesse ore veniva rapito anche un parlamentare indiano, da parte di un folto gruppo armato di ribelli composto da un centinaio di persone.
Tutti episodi che hanno reso la trattativa per la liberazione dei due italiani estremamente complicata.
La Farnesina ha atteso molte ore e varie conferme per diramare una nota ufficiale in cui dava conferma dell'avvenuta liberazione, ma, ricordano i giornali, la prova della liberazione è arrivata tempestiva e puntuale da twitter, dove l'uomo è stato in grado di scrivere un pensiero per la sua famiglia, aggiungendo un pensiero per l’amico ancora in mano ai ribelli.
Quattro morti fra venerdì e domenica, crudeli come tutte le morti, forse anche di più. La prima a morire, alle 11,30 del mattino di venerdì, Fakhra Younas, ex ballerina pakistana diventata poi simbolo della lotta delle donne sfregiate con l'acido, che si è gettata da una finestra del sesto piano della palazzina di Tor Pagnotta, a Roma, dove viveva o meglio conviveva con la disperazione di “un volto cancellato” e di una identità disfatta.
Una vita di stenti la sua, iniziata con un matrimonio d'amore, quasi una mosca bianca fra i mille matrimoni combinati in India, ma subito trasformata in una incubo di violenze e ricatti.
La gelosia del marito Bilal, potente politico locale e poi, come accade troppo spesso in Pakistan, il volto sfregiato con l'acido, versatogli addosso di notte, da quell’uomo che temeva di essere lasciato.
Così, tredici anni fa, inizia l'incubo, la consapevolezza di essere sola a lottare contro la famiglia di un potente, il coraggio di chiedere il divorzio e gli sforzi per cambiare.
Accolta dalla associazione italiana Smileagain, 11 anni fa, ha cercato, intervento dopo intervento, di ricostruirsi un volto e giorno dopo giorno una vita.
Quando è arrivata nel nostro Paese aveva la faccia deturpata e il collo talmente rattrappito dalle cicatrizzazioni da non consentirle più di alzare la testa.
Tanti interventi e tanto dolore, raccontati nel libro “Il volto cancellato”, scritto con la giornalista Elena Doni: un importante documento di denuncia, un coinvolgente viaggio nei costumi e nelle tradizioni di un paese lontano, ma anche e soprattutto una vicenda simbolo, in cui si tutte le donne umiliate, offese, sopraffatte dall’ignoranza e dalla prepotenza degli uomini, ma tenaci e capaci di trovare la forza per risorgere e tornare a camminare a testa alta.
Ma quella forza, infine, è venuta meno, anche se ripeteva che “perdonare è possibile” e si deve andare avanti.
Il marito, vivo, vegeto e risposato, per quel gesto ha fatto solo sei mesi di carcere ed ora il figlio diciassettenne, Nauman, che ha vissuto sempre con lei dice sconsolato che il grande coraggio di sua madre rimarrà per sempre il simbolo della lotta delle donne islamiche per l'emancipazione.
La giornata internazionale contro la violenza sulle donne è stata istituita per la prima volta nel 1991, per la commemorazione della morte delle tre sorelle Mirabal, attiviste della repubblica Dominicana brutalmente assassinate il 25 novembre 1961 perché si opponevano al regime dittatoriale del loro paese.
La loro storia è stata quindi scelta come emblema a livello mondiale di tutte le donne vittime della violenza di genere.
Nella realtà, ancora oggi, la violenza sulla donne è trascurata, non le si da la giusta importanza e possiamo senz’altro dire che né i media né tanto meno le istituzioni facciano qualcosa di reale per cambiare le cose. Se è accertato che il 70% degli stupri ha luogo fra le mura domestiche, per mano di mariti, fidanzati, familiari e amici che sono i primi da cui dovremmo sempre proteggerci, sappiamo bene che è raro trovare queste notizie sulla prima pagina di un giornale soprattutto se si tratta di italiani, magari anche di buona famiglia.
Tutto questo però ci deve far capire quanto sia calibrato e distorto il discorso pubblico sulla violenza nei confronti delle donne il cui unico fine sembra quello di scatenare teoremi fatti di razzismo, di xenofobia e paura di tutto ciò che è diverso da noi, visto come il pericolo assoluto da cui dobbiamo stare lontane: da una parte il vogliono criminalizzare i migranti e indirizzare verso di loro tutto il male che in realtà è ben più subdolo e diffuso nella nostra società, dall’altra il messaggio che passa è che dobbiamo avere paura, sempre, di uscire, di girare da sole, di andare luoghi diversi da quello della nostra dolce casa.
Sempre venerdì, alle 14 ora italiana, a migliaia di miglia di distanza, nell’avamposto “Ice”, presidiato dai soldati italiani della Task Force South-East, del 1° Reggimento Bersaglieri un attacco a colpi di mortaio, ha ucciso Michele Silvestri, sergente di 33 anni di Monte Procida e causato il ferimento di cinque altri commilitoni, fra cui una donna, alcuni in gravissime condizioni.
Con Silvestri l'elenco delle nostre vittime in Afganistan sale a cinquanta, mentre i Servizi segreti avvertono che, di questo passo, il processo di transizione rischia di fallire.
L'avamposto, secondo quanto si è appreso, era stato preso di mira anche al mattino, sempre a colpi di mortaio, che però erano finiti fuori dal perimetro della base.
Nel primo pomeriggio di venerdì l'attacco è stato ripetuto e, stavolta, alcune bombe sono andate a segno.
Dopo il secondo attacco, sempre secondo quanto è stato possibile apprendere, si sono alzati in volo degli elicotteri Mangusta che hanno “neutralizzato” le postazioni nemiche.
Davvero magra consolazione se si considera il sangue versato per una guerra che appare sempre più inutile e insensata.
La salma di Michele Sivestri è rientrata a Ciampino ieri e nell’accoglierla il padre ha avuto un malore. Due dei militari feriti, fra cui la donna, sono in gravi condizioni e si teme per la loro vita.
“L'Italia continua a pagare purtroppo un altissimo prezzo di sangue e questo ci addolora profondamente. La missione italiana in Afghanistan continua comunque a essere decisiva per la tutela della libertà, della sicurezza e della pace”, ha detto Schifani, ma noi, con molti altri, continuiamo a dubitarne, in quella che appare sempre più una guerra di occupazione che miete inutili vittime fra civili e militari.
Una guerra che, come ogni guerra, non piaceva ad Antonio Tabucchi, morto sabato a Lisbona, vinto dal cancro a 68 anni, dopo una carriera lunga 36 anni, iniziata con il libro "Piazza d'Italia", pubblicato da Bompiani nel 1975. L'anno scorso, "Racconti con figure", edito da Sellerio.
Fortemente legato al Portogallo e alla cultura lusitana in genere, Tabucchi è stato il maggiore esperto e traduttore di Fernando Pessoa, appassionato di politica e sospinto senza sosta al confronto di idee.
Nel 1994 divenne famoso al grande pubblico grazie a "Sostiene Pereira", ambientato in Portogallo durante la dittatura di Salazar, da cui Roberto Faenza trasse il film omonimo con Marcello Mastroianni, divenuto il simbolo della lotta per la libertà di informazione nei regimi autoritari.
Nel 2009, già ammalato, collaborò con Oliviero Beha, Maurizio Chierici e Marco Travaglio, alla scrittura del nuovo giornale "Il Fatto Quotidiano".
I suoi libri sono tradotti in quaranta lingue e alcuni dei suoi romanzi, non solo il più celebre, sono stati portati sullo schermo da registi italiani e stranieri (Roberto Faenza, Alain Corneau, Alain Tanner, Fernando Lopes) o sulla scena da rinomati registi teatrali (Giorgio Strehler e Didier Bezace fra gli altri).
A Lisbona, città natale della moglie, dove dal 1985 al 1987 era stato anche direttore dell'Istituto Italiano di Cultura, viveva abitualmente per sei mesi l'anno, trascorrendo gli altri sei in Toscana, dove insegnava Letteratura all'Universitá di Siena.
"Casa Pessoa" ha previsto per il 2 aprile dalle 10.30 del mattino, una”maratona di lettura integrale di Requiem” ed il presidente della Fondazione Pedrosa, ha commentato “gli scrittori continuano a vivere finché li leggiamo”, intendo anche dire che siamo davvero vivi finché leggiamo e pensiamo.
Tabucchi non ne faceva passare nessuna a nessuno, ha ricordato Marco Travaglio su il Fatto Quotidiano, citando il caso della critica dello scrittore a Ciampi che aveva aperto “ai ragazzi si Salò” che causò l’abbandono, da parte del senatore Andrea Manzella, consigliere del Quirinale, della presidenza dell’Unità, reo, con Le Monde di aver pubblicato quella critica di Tabucchi.
“Che razza di Nazione è quella dove uno scrittore può insolentire il capo dello Stato sull’Unità e su Le Monde?”, si domandò Bruno Vespa, convinto che il dovere dell’intellettuale sia quello di servire e plaudire sempre il potere, mai di criticarlo. Uno dei suoi bersagli prediletti era Giuliano Ferrara, il più servile dei servi berlusconiani eppure sempre considerato “intelligente” da chi a Berlusconi avrebbe dovuto opporsi. Una sera, a Porta a Porta, Ferrara definì l’Unità di Furio Colombo e Antonio Padellaro “giornale omicida” e accusò Colombo e Tabucchi di essere nientemeno che i “mandanti linguistici del mio prossimo assassinio” (che naturalmente non ci fu).
Qualche anno dopo rubò letteralmente un articolo che Tabucchi aveva scritto per Le Monde, in cui ricordava i trascorsi di Ferrara come spia prezzolata della Cia, e lo pubblicò in anticipo sul Foglio. Tabucchi gli fece causa al Tribunale di Parigi, e la vinse.
Ma Tabucchi, che per me è stato, con Pasolini e Sciascia, il più intelligente polemista dell’ultimo mezzo secolo, colpiva anche a sinistra.
Ad esempio, intervenendo in collegamento da Parigi nella famosa puntata di Annozero con Luigi De Magistris e Clementina Forleo, che poi costò il posto e la carriera a entrambi i magistrati coraggiosi, mostrando, più e contro lo stesso Santoro, di aver capito che, su quelle due vicende, si giocava un bel pezzo della nostra democrazia, intesa come separazione dei poteri.
Un’altra volta, sempre da Santoro, si parlava della legge bavaglio sulle intercettazioni e lui, col suo feroce e placido candore, tipico dell’italiano all’estero, ricordò che i parlamentari non possono essere intercettati: se la loro voce viene captata da una cimice è perché parlano con qualche delinquente intercettato: “Se i nostri politici telefonassero alla Caritas o alla Comunità di Sant’Egidio nessun giudice li ascolterebbe”.
Era un uomo onesto e coerente Tabucchi, che prese carta e penne per difendere Travaglio, con cui spesso non era d’accordo, da una campagna orchestrata dal Corriere sulla sua presunta “misoginia” per una critica a Ritanna Armeni, che faceva da spalla a Ferrara a “Otto e mezzo”.
Un uomo onesto e sensibile che non le mandava a dire e per questo era stato tenuto ai margini e guardato con sospetto dall’Italia che conta, politica ed intellettuale.
E nonostante Napolitano plauda, nel suo telegramma di cordoglio al suo “impegno civile”, fa bene la moglie a lasciare al Portogallo la soddisfazione dei funerali.
L’ultima morte sabato, con il 37enne Vigor Bovolenta, fulminato da un infarto su un campo di Volley, mentre difendeva i colori della sua Forlì, contro la Lube, a Macerata.
Aveva esordito con il Messaggero Ravenna, nel 1990, maglia con la quale aveva vinto uno scudetto tricolore, 3 Coppe del Campioni, 1 Coppa Italia, una Coppa Cev e due Supercoppe Europee.
Poi la sua carriera era proseguita a Ferrara, Roma, Palermo, Modena (campione d’Italia 2001-02), Piacenza, Perugia, e, da ultimo Forlì.
Era stato in Nazionale, soprannominato“iradiddio”, un uomo gigantesco ed inesauribile, tutto riccioli e salti, capace di commuoversi fino alle lacrime quando Ciampi, nel 2000, gli assegnò l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica.
In Romagna, la sua terra d’adozione, aveva salutato la serie A e spinto dall’inesauribile passione, aveva deciso di rimanere in campo giocando in B2 ed iniziando una nuova carriera dirigenziale.
Si è sentito male nel corso della partita a Macerata, dopo pochi minuti di gioco e a nulla sono valsi gli sforzi dei soccorritori che hanno provato a lungo a rianimare il giocatore.
E’ stato trasportato all'ospedale di Macerata, si è spento, lasciando la moglie e 4 figli, ricordato sui campi della Serie A con un minuto di silenzio.
L’unica buona notizia in un triste week-end di lutti e amarezze, la liberazione ed il ritorno alla vita di Claudio Colangelo, medico 61enne in mano ai guerriglieri maoisti con Paolo Bosusco (che resta prigioniero), per undici, terribili giorni. Nel corso della prigionia “ci siamo mossi nella giungla”, ha detto agli intervistatori e il trattamento è stato buono. E ancora: “Hanno fatto di tutto per venirci incontro”, confermando che il capo dei maoisti, che si chiama Panda, si è rivelato “buono” di nome e di fatto. “Erano tutti molto gentili. Anche i bambini...perché tali mi sembravano alcuni di loro, e poi anche le donne, tutti quanti mi hanno trattato bene”. Anche il mangiare, date le circostanze, non è stato malaccio. Ora Colangelo, si augura una pronta liberazione dell’amico Paolo Bosusco, ancora nella mani dei guerriglieri, che avrebbe, come lui, contratto una forma di malaria anche se lieve e non particolarmente grave.
La liberazione è avvenuta a sorpresa, proprio mentre si temeva il peggio. Il tutto è accaduto mentre nelle ultime ore il gruppo dei maoisti era rimasto coinvolto in una lotta interna tra diverse fazioni.
Qualche giorno fa un poliziotto indiano era stato rapito e quindi giustiziato immediatamente con dei colpi di fucile alla testa mentre nelle stesse ore veniva rapito anche un parlamentare indiano, da parte di un folto gruppo armato di ribelli composto da un centinaio di persone.
Tutti episodi che hanno reso la trattativa per la liberazione dei due italiani estremamente complicata.
La Farnesina ha atteso molte ore e varie conferme per diramare una nota ufficiale in cui dava conferma dell'avvenuta liberazione, ma, ricordano i giornali, la prova della liberazione è arrivata tempestiva e puntuale da twitter, dove l'uomo è stato in grado di scrivere un pensiero per la sua famiglia, aggiungendo un pensiero per l’amico ancora in mano ai ribelli.
Pasolini e i No Tav...
Una bieca circostanza, solo apparentemente marginale,
che si inquadra nel profilo della vertenza sorta in Val di Susa e che
ha destato in me una reazione di scandalo, al di là della dura
repressione scatenata contro il movimento No TAV, si riferisce al
tentativo di strumentalizzazione e mistificazione ideologica del
pensiero di Pier Paolo Pasolini compiuto da alcuni esponenti prezzolati
dell’informazione nazionale. Alludo a quanti hanno provato a distorcere e
strumentalizzare in modo indegno e disonesto una posizione assunta da
Pasolini molti anni fa, il 16 giugno 1968, quando pubblicò i famosi
versi intitolati “Il Pci ai giovani”, sugli scontri di Valle Giulia a
Roma. In quella occasione Pasolini si schierò dalla parte dei
poliziotti, in quanto di estrazione proletaria, mentre si scagliò
apertamente contro la “massa informe” degli studenti, figli di quella
borghesia che egli detestava profondamente. Eppure Pasolini non ha mai
rinnegato o esecrato i movimenti di contestazione come Lotta Continua o
altre formazioni extraparlamentari, con cui ha persino collaborato
attraverso esperienze di controinformazione. Si pensi solo alla
controinchiesta condotta dal collettivo politico di Lotta Continua
guidato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, che si concretizzò nel
film-documentario “12
dicembre”, uscito nel 1972 e dedicato alla strage di Piazza Fontana. Un’opera la cui realizzazione coinvolse direttamente Pasolini, il quale contribuì pure alla sceneggiatura.
dicembre”, uscito nel 1972 e dedicato alla strage di Piazza Fontana. Un’opera la cui realizzazione coinvolse direttamente Pasolini, il quale contribuì pure alla sceneggiatura.
In
altri termini, la disonestà intellettuale e la mistificazione
ideologica di questi presunti operatori dell’informazione, in evidente
mala fede, consistono nel fatto che essi espongono solo la versione dei
fatti che fa loro comodo, mentre tacciono, o fingono di dimenticare,
quella porzione di verità che non conviene (o non interessa) raccontare.
Tornando
alla questione della TAV, è assai probabile che Pasolini avrebbe
solidarizzato e simpatizzato nei confronti della mobilitazione popolare
sorta in Val di Susa, conoscendo il rispetto quasi sacrale e la passione
viscerale che nutriva per lo studio e la salvaguardia di ogni identità
antropologica particolaristica, da intendersi in un’accezione tutt’altro
che nostalgica o reazionaria, intimamente connessa ai valori più
autentici e genuini dell’uomo, spazzati via dall’omologazione imposta
dall’ideologia del “pensiero unico”.
In tal senso
la vertenza scaturita in Val di Susa è paradigmatica, in quanto la TAV
non è un progetto al servizio della modernità e del progresso dei
popoli, bensì delle merci e dei profitti, ossia delle forze egemoni nel
mondo capitalistico. Si tratta di una vicenda esemplare che smaschera il
volto ipocrita, autoritario e affaristico dei sedicenti “stati
democratici”, che dirottano soldi pubblici nelle tasche della grande
imprenditoria privata, infiltrata dalla criminalità organizzata, per
finanziare opere faraoniche prive di vantaggi sociali e molto
discutibili a livello economico, in quanto costose ed inutili per
rilanciare l’economia in crisi. Nel contempo si depotenziano le
infrastrutture ferroviarie del Sud Italia, considerate di minore
importanza, e si tagliano fondi ai settori pubblici che, oltre a creare
opportunità di lavoro, forniscono beni e servizi utili alla
collettività.
In questa ottica la TAV è una
chiara testimonianza dell’assoluta subalternità del potere pubblico alla
logica del profitto privato, l’ennesima conferma che certifica il
primato della sfera economica sulla dimensione collettiva della
politica, anteponendo le leggi ferree e spietate del mercato e la forza
smisurata del capitale, agli interessi della comunità, del territorio e
della sanità locale, della democrazia e della giustizia sociale.
Di
fronte ad ingranaggi così folli e mostruosi, si erge in termini
antagonistici il movimento No TAV che, a dispetto di quanti sostengono
il contrario, denota un ruolo di protagonismo attivo delle popolazioni
locali, che ormai oltrepassa i confini territoriali della Val di Susa e
coinvolge gruppi di militanti provenienti da tutta l’Italia e persino
dall’estero. Non è un caso che questa vertenza locale si allacci
saldamente con le proteste e le rivolte globali che hanno sconvolto il
mondo nell’anno appena trascorso.
Del resto, una
lotta per la tutela dell’ambiente e della salute della gente, potrebbe
configurarsi come una posizione di retroguardia, quindi di
conservazione. E in un certo senso lo è. A tale proposito rammento una
provocazione “corsara” che Pasolini lanciò oltre 35 anni fa, l’ennesima
intuizione “profetica”: in una società consumistica di massa che
promuove “rivoluzioni” ultraliberiste che potremmo facilmente definire
“di destra”, i veri rivoluzionari sono (paradossalmente) i
“conservatori”. I cambiamenti innescati nel quadro dell’economia
capitalistica contemporanea, sono di natura liberticida e reazionaria,
frutto di un’accelerazione storica improvvisa che ha determinato un
processo di sviluppo abnorme ed irrazionale, di globalizzazione a senso
unico, in ultima analisi sono “rivoluzioni conservatrici”. Il ricorso ad
un ossimoro serve ad indicare la funzionalità ad un’istanza di
stabilizzazione conservatrice dei rapporti di forza esistenti.
Quanti
si battono per arginare la deriva autoritaria e destabilizzante
provocata dallo strapotere delle oligarchie finanziarie, per contenere
l’offensiva neocapitalista sferrata contro le conquiste dei lavoratori,
per resistere agli assalti della destra più agguerrita e oltranzista
(che non è tanto la destra berlusconiana o leghista, quanto quella più
elegante e sofisticata delle tecnocrazie che fanno capo al governo
Monti), coloro che si adoperano per mantenere le condizioni residuali di
legalità democratica e le tutele costituzionali, sono indubbiamente
“conservatori”, per cui oggiAggiungi un appuntamento per oggi sono i
veri rivoluzionari.
Ma essere contro la TAV non
equivale ad essere contro il progresso, bensì contro un falso e
aberrante modello di sviluppo che genera una perversa e fallace nozione
di “modernità”. Gli esiti rovinosi di questa modernizzazione posticcia
sono ravvisabili ovunque, soprattutto in un processo di perversione e
degrado dei rapporti umani, improntati in maniera sempre più ossessiva
ad un interesse esclusivo, la ricerca del profitto, quale unica ragione
esistenziale da esibire e proporre alle nuove generazioni.
Questo
paradigma ideologico è altamente diseducativo e deviante, poiché si
assume come fine univoco uno stile di vita e di comportamento che
diviene pervasivo e non è sorretto da una coscienza intellettuale
sufficientemente critica, capace di sostituire, se occorre,
quell’esigenza unilaterale e morbosa con valori etici e culturali più
gratificanti.
L’imposizione di una visione della
vita che è perfettamente conforme all’ordinamento economico e politico
dominante, non si esercita più attraverso strumenti di coercizione e di
oppressione diretta, ma si esplica con procedimenti diversi rispetto al
passato, ricorrendo a sistemi di alienazione subdola e strisciante che
solo apparentemente sono democratici e pacifici, ma in effetti si
rivelano più repressivi di una dittatura fascista. Il controllo degli
stati e delle società tecnologicamente avanzate non si regge tanto
sull’uso della forza militare, quanto sul ruolo di condizionamento,
disinformazione e manipolazione ideologica svolto dalla televisione.
Vale la pena di richiamare la tesi sostenuta da Pasolini in diverse
circostanze a proposito della televisione, considerata come un mezzo di
comunicazione antidemocratico, poiché non suscita e non consente uno
scambio dialettico interattivo, ossia aperto e paritario, ma al
contrario privilegia ed esalta un rapporto autoritario e paternalistico,
che non ammette possibilità di replica.
In tal senso, la televisione incarna il nuovo fascismo, il vero Leviatano della modernità.
“ Perjeta ” un nuovo farmaco contro il cancro al seno omologato oggi in Svizzera
Il nuovo medicinale riduce il rischio di morte nella cura della forma aggressiva del cancro
Il
gruppo farmaceutico svizzero Roche, oggi ha annunciato di avere
omologato in Svizzera un preparato denominato “Perjeta “ contro il
cancro al seno dalle proprietà medicinali straordinarie.
L'autorizzazione si basa sui risultati di fase III dello studio
"Cleopatra".
La società basilese ha sottolineato che le pazienti curate
con una terapia combinata con il Perjeta in media vivono sei mesi più a
lungo senza che la malattia progredisca, rispetto a pazienti trattate
solo con l'Herceptin, pure di Roche, e la chemioterapia. La combinazione
con il Perjeta inoltre riduce il rischio di morte in modo
significativo, rileva la Roche in una nota.
Il
nuovo preparato osserva Giovanni D’Agata, fondatore dello “Sportello dei
Diritti”, rappresenta il maggiore progresso nella cura di tale forma
aggressiva del cancro al seno dall'introduzione dieci anni fa
dell'Herceptin. Oggi, il futuro del trattamento del cancro e le
possibilità di sopravvivenza è più che una promessa.
Infatti
secondo la Roche, non ci sono dubbi su questo, “Perjeta” in
combinazione con l'Herceptin e il Docetaxel è indicato nei casi di
tumore mammario HER-2 positivo con metastasi o con recidive locali, non
operabile, che non sono ancora stati trattati con una chemioterapia
contro le metastasi.
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Pedofilia: trovato carbonizzato il corpo di un prete
Varsavia: Il corpo di un sacerdote
cattolico polacco di 53 anni accusato di pedofilia e' stato
ritrovato carbonizzato davanti alla tomba di famiglia nel
cimitero del villaggio di Lopiennik Nadrzeczny, nel sud-est
della Polonia. Lo ha reso noto la procura locale di Zamosc.
Il sacerdote, Boguslaw P., era imputato in un processo per molestie sessuali che avrebbe commesso negli anni 2004-2005 ai danni di un suo chierichetto a Pocking, in Bassa Baviera in Germania, dove era parroco. Il sacerdote era inoltre sospettato di aver commesso lo stesso reato nei confronti di altri due ragazzi dieci anni fa a Turka, nel sud-est della Polonia.
''L'identita' del cadavere e' stata confermata da un suo amico'', ha dichiarato Miroslaw Buczek, procuratore aggiunto di Zamosc. Secondo il sito gazeta.pl, accanto al corpo parzialmente carbonizzato del prete sono stati ritrovati un coltello e una bottiglia di liquido infiammabile.
Il religioso era stato fermato la scorsa settimana dalla polizia in seguito ai fatti di Turka e rilasciato il giorno dopo. Boguslaw P., che si dichiarava non colpevole, rischiava 12 anni di prigione. Nonostante qualche caso registrato negli ultimi anni, in Polonia, dove il 90% degli abitanti si professa cattolico, non c'e' mai stato un vero e proprio scandalo pedofilia legato alla chiesa.
Il sacerdote, Boguslaw P., era imputato in un processo per molestie sessuali che avrebbe commesso negli anni 2004-2005 ai danni di un suo chierichetto a Pocking, in Bassa Baviera in Germania, dove era parroco. Il sacerdote era inoltre sospettato di aver commesso lo stesso reato nei confronti di altri due ragazzi dieci anni fa a Turka, nel sud-est della Polonia.
''L'identita' del cadavere e' stata confermata da un suo amico'', ha dichiarato Miroslaw Buczek, procuratore aggiunto di Zamosc. Secondo il sito gazeta.pl, accanto al corpo parzialmente carbonizzato del prete sono stati ritrovati un coltello e una bottiglia di liquido infiammabile.
Il religioso era stato fermato la scorsa settimana dalla polizia in seguito ai fatti di Turka e rilasciato il giorno dopo. Boguslaw P., che si dichiarava non colpevole, rischiava 12 anni di prigione. Nonostante qualche caso registrato negli ultimi anni, in Polonia, dove il 90% degli abitanti si professa cattolico, non c'e' mai stato un vero e proprio scandalo pedofilia legato alla chiesa.
Pedofilia, risarcimento per 1,7 milioni
I risarcimenti si riferiscono ad abusi commessi da almeno 10 fra preti e insegnanti impiegati dalla Chiesa, e includono il più alto risarcimento concordato in Australia, pari a circa 1,7 milioni di euro. Nei termini degli accordi, negoziati tramite studi legali, la Chiesa non ammette responsabilità per gli abusi, anche se molte delle vittime li considerano un riconoscimento delle loro sofferenze. "La Chiesa di solito richiede un atto liberatorio che proibisca alla vittima di presentare altre rivendicazioni per gli stessi abusi, e una clausola che proibisca di discutere i termini dell'accordo", ha detto uno degli avvocati che ha condotto le trattative.
caso Cucchi è la vicenda giudiziaria e di cronaca che ruota intorno alla morte del geometra romano trentunenne Stefano Cucchi, deceduto il 22 ottobre 2009 durante custodia cautelare. Tale fatto ha dato origine a un celebre caso di cronaca giudiziaria che ha coinvolto alcuni agenti di polizia penitenziaria e alcuni medici del carcere di Regina Coeli.[1] Cucchi era un ragazzo appassionato di boxe[2] ed alcuni anni prima della sua morte era un tossicodipendente in cura presso alcune comunità terapeutiche.
l 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi venne trovato in possesso di alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici (il giovane era epilettico), in conseguenza di questo venne decisa la custodia cautelare, in questa data il giovane non aveva alcun trauma fisico e pesava 43 chilogrammi (per 176 cm di altezza)[3]. Il giorno dopo venne processato per direttissima, già durante il processo aveva difficoltà a camminare e a parlare, inoltre aveva degli ematomi evidenti agli occhi, il giovane parlò con suo padre pochi attimi prima dell'udienza ma non gli disse di essere stato picchiato. Nonostante le precarie condizioni del giovane, il giudice stabilì una nuova udienza da celebrare qualche settimana dopo e stabilì che il giovane avrebbe dovuto rimanere in custodia cautelare al Regina Coeli[4].
Dopo l'udienza le condizioni del giovane peggiorarono ulteriormente, e venne visitato all'ospedale Fatebenefratelli presso il quale vennero messe a referto lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso (inclusa una rottura della mascella), all'addome (inclusa un'emorragia alla vescica) e al torace (incluse due fratture alla colonna vertebrale). Venne quindi richiesto il suo ricovero che però venne rifiutato dal giovane stesso. In carcere le sue condizioni peggiorarono ulteriormente e morì all'ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre 2009, in tale data Cucchi pesava 37 chilogrammi[4][5].
Dopo la prima udienza i familiari di Stefano Cucchi cercarono a più riprese di vedere, o perlomeno conoscere le sue condizioni fisiche, senza successo. La famiglia venne a conoscenza delle condizioni fisiche di Cucchi quando un ufficiale giudiziario venne a casa loro per chiedere l'autorizzazione all'autopsia[6].
Dopo la morte di Stefano Cucchi, il personale carcerario fece diverse dichiarazioni negando di avere esercitato violenza sul giovane e dicendo che lo stesso era morto o per conseguenze a un supposto abuso di droga, o a causa di pregresse condizioni fisiche, o per il suo rifiuto al ricovero al Fatebenefratelli. Lo stesso sottosegretario Carlo Giovanardi dichiarò che Stefano Cucchi era morto soltanto di anoressia e tossicodipendenza (false dichiarazioni delle quali si pentì e per le quali chiese scusa ai familiari del giovane [7][8]). Nel frattempo, per fermare le illazioni che venivano dette sulla sua morte, la famiglia pubblicò alcune foto del giovane scattate in obitorio nelle quali erano ben visibili dei traumi da violente percosse e un evidente stato di denutrizione[9].
Durante le indagini circa le cause della sua morte, un testimone ghanese dichiarò che Stefano Cucchi gli aveva detto che era stato picchiato, il detenuto Marco Fabrizi chiese di essere messo in cella con Stefano (che era solo) ma questa richiesta venne negata da un agente che fece con la mano il segno delle percosse, la detenuta Annamaria Costanzo affermò che il giovane le aveva detto di essere stato picchiato, mentre Silvana Cappuccio vide personalmente gli agenti di polizia penitenziaria picchiare Cucchi con violenza [10].
A causare la morte sarebbero stati i traumi conseguenti alle percosse, il digiuno (con conseguente ipoglicemia), la mancata assistenza medica, i danni epatici, e l'emorragia alla vescica che impediva la minzione del giovane (alla morte aveva una vescica che conteneva ben 1,4 l di urina che aveva già invaso il resto del corpo). Determinante fu l'ipoglicemia in cui i medici lo avevano abbandonato, questo pericolo si sarebbe potuto scongiurare anche soltanto con un cucchiaio di zucchero [11].
Stando alle indagini gli agenti di polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio a Antonio Dominici avrebbero gettato il ragazzo per terra procurandogli le lesioni toraciche di cui sopra, infierendo poi con calci e pugni[12].
Oltre agli agenti di polizia penitenziaria, vennero indagati i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponnetti che non avrebbero curato il giovane e che lo avrebbero lasciato morire di inedia. Questi si difesero dicendo che era il giovane a rifiutare le cure[12].
Gli agenti di polizia penitenziaria sono tuttora indagati per lesioni e percosse (è caduta l'accusa di omicidio colposo), mentre i medici sono indagati per abbandono di incapace[11].
l 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi venne trovato in possesso di alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici (il giovane era epilettico), in conseguenza di questo venne decisa la custodia cautelare, in questa data il giovane non aveva alcun trauma fisico e pesava 43 chilogrammi (per 176 cm di altezza)[3]. Il giorno dopo venne processato per direttissima, già durante il processo aveva difficoltà a camminare e a parlare, inoltre aveva degli ematomi evidenti agli occhi, il giovane parlò con suo padre pochi attimi prima dell'udienza ma non gli disse di essere stato picchiato. Nonostante le precarie condizioni del giovane, il giudice stabilì una nuova udienza da celebrare qualche settimana dopo e stabilì che il giovane avrebbe dovuto rimanere in custodia cautelare al Regina Coeli[4].
Dopo l'udienza le condizioni del giovane peggiorarono ulteriormente, e venne visitato all'ospedale Fatebenefratelli presso il quale vennero messe a referto lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso (inclusa una rottura della mascella), all'addome (inclusa un'emorragia alla vescica) e al torace (incluse due fratture alla colonna vertebrale). Venne quindi richiesto il suo ricovero che però venne rifiutato dal giovane stesso. In carcere le sue condizioni peggiorarono ulteriormente e morì all'ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre 2009, in tale data Cucchi pesava 37 chilogrammi[4][5].
Dopo la prima udienza i familiari di Stefano Cucchi cercarono a più riprese di vedere, o perlomeno conoscere le sue condizioni fisiche, senza successo. La famiglia venne a conoscenza delle condizioni fisiche di Cucchi quando un ufficiale giudiziario venne a casa loro per chiedere l'autorizzazione all'autopsia[6].
Dopo la morte di Stefano Cucchi, il personale carcerario fece diverse dichiarazioni negando di avere esercitato violenza sul giovane e dicendo che lo stesso era morto o per conseguenze a un supposto abuso di droga, o a causa di pregresse condizioni fisiche, o per il suo rifiuto al ricovero al Fatebenefratelli. Lo stesso sottosegretario Carlo Giovanardi dichiarò che Stefano Cucchi era morto soltanto di anoressia e tossicodipendenza (false dichiarazioni delle quali si pentì e per le quali chiese scusa ai familiari del giovane [7][8]). Nel frattempo, per fermare le illazioni che venivano dette sulla sua morte, la famiglia pubblicò alcune foto del giovane scattate in obitorio nelle quali erano ben visibili dei traumi da violente percosse e un evidente stato di denutrizione[9].
Durante le indagini circa le cause della sua morte, un testimone ghanese dichiarò che Stefano Cucchi gli aveva detto che era stato picchiato, il detenuto Marco Fabrizi chiese di essere messo in cella con Stefano (che era solo) ma questa richiesta venne negata da un agente che fece con la mano il segno delle percosse, la detenuta Annamaria Costanzo affermò che il giovane le aveva detto di essere stato picchiato, mentre Silvana Cappuccio vide personalmente gli agenti di polizia penitenziaria picchiare Cucchi con violenza [10].
A causare la morte sarebbero stati i traumi conseguenti alle percosse, il digiuno (con conseguente ipoglicemia), la mancata assistenza medica, i danni epatici, e l'emorragia alla vescica che impediva la minzione del giovane (alla morte aveva una vescica che conteneva ben 1,4 l di urina che aveva già invaso il resto del corpo). Determinante fu l'ipoglicemia in cui i medici lo avevano abbandonato, questo pericolo si sarebbe potuto scongiurare anche soltanto con un cucchiaio di zucchero [11].
Stando alle indagini gli agenti di polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio a Antonio Dominici avrebbero gettato il ragazzo per terra procurandogli le lesioni toraciche di cui sopra, infierendo poi con calci e pugni[12].
Oltre agli agenti di polizia penitenziaria, vennero indagati i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponnetti che non avrebbero curato il giovane e che lo avrebbero lasciato morire di inedia. Questi si difesero dicendo che era il giovane a rifiutare le cure[12].
Gli agenti di polizia penitenziaria sono tuttora indagati per lesioni e percosse (è caduta l'accusa di omicidio colposo), mentre i medici sono indagati per abbandono di incapace[11].
giovedì 16 agosto 2012
Tang Hui è libera, chiedeva pene più severe per gli stupratori della figlia
Tang Hui, una donna cinese condannata a 18 mesi di rieducazione
in un campo di lavoro per aver chiesto pene più severe contro i sette
uomini che avevano costretto la figlia 11enne a prostituirsi, è stata
liberata dopo una forte mobilitazione in suo favore su Internet che ha
smosso l'opinione pubblica.
Una storia che ha dell'incredibile nella Cina post moderna e precapitalistica al di là delle ragioni individuali. I fatti, in breve. Tang Hui era stata condannata per aver protestato con veemenza, in più occasioni, davanti agli uffici governativi, contro le pene inflitte ai sette uomini che avevano rapito, stuprato e poi costretto a prostituirsi la figlia - all'epoca di soli 11 anni, oggi 17enne, rapita nell'ottobre 2006, e ritrovata il 30 dicembre dello stesso anno. Il 5 giugno scorso, dopo dunque sei anni, la corte ha pronunciato la sentenza contro i sette imputati: due condanne a morte, quattro ergastoli e 15 anni di carcere. Tang, invece, aveva chiesto la pena capitale per tutti e sette. Stando a quanto riporta l'agenzia di stampa Xinhua, la colpa più grave per Tang però era di aver accusato in particolare la polizia della città di Yongzhou, nella provincia centrale di Hunan. E l'accusa contro costoro era di aver manomesso le prove contro i sette uomini, con l'obiettivo di ottenere per loro pene più leggere. La condanna della donna non è passata sotto silenzio, anzi, provocando da subito una forte indignazione nell'opinione pubblica cinese, con migliaia di internauti che hanno chiesto una riforma del sistema penale, criticando il sistema di rieducazione con il lavoro. Dopo la mobilitazione, finalmente le autorità hanno accolto l'appello presentato tre giorni fa dai legali di Tang Hui motivando il rilascio con la necessità, della figlia, di essere seguita dalla madre.
Qui sopra Tang Hui mentre mentre mostra la foto di sua figlia rapita; nella foto di copertina, la donna mentre racconta la sua vicenda ad un cronista
Una storia che ha dell'incredibile nella Cina post moderna e precapitalistica al di là delle ragioni individuali. I fatti, in breve. Tang Hui era stata condannata per aver protestato con veemenza, in più occasioni, davanti agli uffici governativi, contro le pene inflitte ai sette uomini che avevano rapito, stuprato e poi costretto a prostituirsi la figlia - all'epoca di soli 11 anni, oggi 17enne, rapita nell'ottobre 2006, e ritrovata il 30 dicembre dello stesso anno. Il 5 giugno scorso, dopo dunque sei anni, la corte ha pronunciato la sentenza contro i sette imputati: due condanne a morte, quattro ergastoli e 15 anni di carcere. Tang, invece, aveva chiesto la pena capitale per tutti e sette. Stando a quanto riporta l'agenzia di stampa Xinhua, la colpa più grave per Tang però era di aver accusato in particolare la polizia della città di Yongzhou, nella provincia centrale di Hunan. E l'accusa contro costoro era di aver manomesso le prove contro i sette uomini, con l'obiettivo di ottenere per loro pene più leggere. La condanna della donna non è passata sotto silenzio, anzi, provocando da subito una forte indignazione nell'opinione pubblica cinese, con migliaia di internauti che hanno chiesto una riforma del sistema penale, criticando il sistema di rieducazione con il lavoro. Dopo la mobilitazione, finalmente le autorità hanno accolto l'appello presentato tre giorni fa dai legali di Tang Hui motivando il rilascio con la necessità, della figlia, di essere seguita dalla madre.
Qui sopra Tang Hui mentre mentre mostra la foto di sua figlia rapita; nella foto di copertina, la donna mentre racconta la sua vicenda ad un cronista
Le donne rompono il silenzio quando sono coinvolti i figli
Il 100 per cento delle madri che in casa subiscono violenza
sta zitto per difendere l’unità familiare.
Ma quasi tutte (il 97 per cento), se ad andarci di mezzo sono anche i figli, rompono il silenzio. A dirlo è un’indagine europea, Daphne III, condotta parallelamente in Italia, a Cipro, in Romania e in Slovacchia per scoprire quali sono le conseguenze su bambini e ragazzi della violenza sulle madri. Stando agli ultimi dati Istat, nel 62,4 per cento dei casi i figli assistono alla violenza domestica e quasi la metà di essi ha meno di 11 anni, secondo Daphne III.
Il danno è permanente: se l’episodio avviene prima dei 15 anni, può portarli a non desiderare né una famiglia né una relazione propria per paura di ripetere il comportamento di cui sono stati testimoni. Aggressività verso i genitori e i pari, bullismo, scarsa autostima sono solo alcune delle conseguenze più diffuse tra i figli di madri vittime di violenza, che, nel 100 per cento dei casi, inizia con una minaccia verbale. E non si ferma alle parole: il 79 per cento delle intervistate ha uno o più referti del Pronto soccorso.
Tra i pretesti che danno il via all’escalation, futili motivi, “stati emotivi dell’uomo definiti come egocentrismo e gelosia”, separazione, gravidanza non desiderata, gestione familiare e successo professionale della donna. Le testimonianze italiane, raccolte grazie ai verbali anonimi forniti dalla Polizia soprattutto nel Sud Italia e nelle isole, riguardano donne che hanno subito violenza tra i 16 e i 60 anni, con figli fino a 27. “Sono quelle che hanno rotto il silenzio, perciò riconoscono la violenza e l’hanno narrata e ben definita in ogni sua manifestazione” spiega Sandra Chistolini, responsabile del progetto Daphne III per l’Università Roma Tre. Ilfattoquotidiano.it l’ha intervistata.
Sandra, il silenzio che accompagna la violenza domestica è una peculiarità tutta italiana o è riscontrabile anche negli altri Paesi oggetto dell’indagine?E’ presente in tutti i Paesi che abbiamo analizzato. Le ragioni sono culturali, religiose, valoriali. La letteratura scientifica documenta ampiamente il dato anche per altri Paesi come quelli del Nord America. Tra i motivi del silenzio delle donne, oltre al voler proteggere la famiglia vi è anche la paura di rimanere senza partner, nonché la speranza che questo sia pentito della violenza e possa non farne più uso.
La distribuzione geografica della ricerca è casuale o al Sud ci sono più casi di violenza (o più casi di violenza denunciati) in seno alle famiglie?Sono state riscontrate molte difficoltà a raccogliere i verbali, per questo abbiamo accettato quello che è stato fornito senza poter procedere a un campionamento proporzionale per ripartizione geografica.
La persona che esercita violenza è sempre il partner o anche altro parente?In alcuni casi sono altri familiari. Emerge comunque il ciclo ripetitivo della violenza: il carnefice e la vittima sono stati a loro volta oggetto di violenza nella famiglia di origine, dove hanno appreso il ruolo di colui che aggredisce e di colei che subisce sin da piccoli, senza sperimentare un’alternativa valida che rompesse la dinamica.
Pensa che sia in atto, o sia possibile, un cambiamento culturale nella società italiana?Il cambiamento è possibile ed è in atto sia a livello di sensibilizzazione dei mass media, sia nella coscienza delle donne.
Le istituzioni hanno coscienza di quanto sia grave e diffuso questo fenomeno?Le istituzioni (polizia, carabinieri, ospedali, scuola, centri anti-violenza, associazioni, parrocchie, vicinato, università) talvolta sono lente, disattente, passive, e come prima reazione in genere si tende a non prestare fiducia a quello che la donna racconta o a sminuirne la portata.
Quali sono i comportamenti violenti perpetrati abitualmente a livello psicologico, sociale, economico, che la maggior parte di noi donne italiane non riconosce come tale?Le violenze verbali e psicologiche sono le prime a comparire e sono anche quelle più nascoste. Infatti solo i referti medici che mostrano la violenza fisica fanno iniziare di fatto l’iter della difesa giuridica della donna. Poi arrivano lo stalking e la privazione economica. La violenza sociale, che emerge chiaramente in tutte le narrazioni delle donne, si manifesta nell’isolamento della famiglia e nella difficoltà dei minori testimoni di violenza a stabilire relazioni con i pari. Il danno al minore, di cui la nostra ricerca Daphne III si è occupata, è ancora tutto da esplorare.
Ma quasi tutte (il 97 per cento), se ad andarci di mezzo sono anche i figli, rompono il silenzio. A dirlo è un’indagine europea, Daphne III, condotta parallelamente in Italia, a Cipro, in Romania e in Slovacchia per scoprire quali sono le conseguenze su bambini e ragazzi della violenza sulle madri. Stando agli ultimi dati Istat, nel 62,4 per cento dei casi i figli assistono alla violenza domestica e quasi la metà di essi ha meno di 11 anni, secondo Daphne III.
Il danno è permanente: se l’episodio avviene prima dei 15 anni, può portarli a non desiderare né una famiglia né una relazione propria per paura di ripetere il comportamento di cui sono stati testimoni. Aggressività verso i genitori e i pari, bullismo, scarsa autostima sono solo alcune delle conseguenze più diffuse tra i figli di madri vittime di violenza, che, nel 100 per cento dei casi, inizia con una minaccia verbale. E non si ferma alle parole: il 79 per cento delle intervistate ha uno o più referti del Pronto soccorso.
Tra i pretesti che danno il via all’escalation, futili motivi, “stati emotivi dell’uomo definiti come egocentrismo e gelosia”, separazione, gravidanza non desiderata, gestione familiare e successo professionale della donna. Le testimonianze italiane, raccolte grazie ai verbali anonimi forniti dalla Polizia soprattutto nel Sud Italia e nelle isole, riguardano donne che hanno subito violenza tra i 16 e i 60 anni, con figli fino a 27. “Sono quelle che hanno rotto il silenzio, perciò riconoscono la violenza e l’hanno narrata e ben definita in ogni sua manifestazione” spiega Sandra Chistolini, responsabile del progetto Daphne III per l’Università Roma Tre. Ilfattoquotidiano.it l’ha intervistata.
Sandra, il silenzio che accompagna la violenza domestica è una peculiarità tutta italiana o è riscontrabile anche negli altri Paesi oggetto dell’indagine?E’ presente in tutti i Paesi che abbiamo analizzato. Le ragioni sono culturali, religiose, valoriali. La letteratura scientifica documenta ampiamente il dato anche per altri Paesi come quelli del Nord America. Tra i motivi del silenzio delle donne, oltre al voler proteggere la famiglia vi è anche la paura di rimanere senza partner, nonché la speranza che questo sia pentito della violenza e possa non farne più uso.
La distribuzione geografica della ricerca è casuale o al Sud ci sono più casi di violenza (o più casi di violenza denunciati) in seno alle famiglie?Sono state riscontrate molte difficoltà a raccogliere i verbali, per questo abbiamo accettato quello che è stato fornito senza poter procedere a un campionamento proporzionale per ripartizione geografica.
La persona che esercita violenza è sempre il partner o anche altro parente?In alcuni casi sono altri familiari. Emerge comunque il ciclo ripetitivo della violenza: il carnefice e la vittima sono stati a loro volta oggetto di violenza nella famiglia di origine, dove hanno appreso il ruolo di colui che aggredisce e di colei che subisce sin da piccoli, senza sperimentare un’alternativa valida che rompesse la dinamica.
Pensa che sia in atto, o sia possibile, un cambiamento culturale nella società italiana?Il cambiamento è possibile ed è in atto sia a livello di sensibilizzazione dei mass media, sia nella coscienza delle donne.
Le istituzioni hanno coscienza di quanto sia grave e diffuso questo fenomeno?Le istituzioni (polizia, carabinieri, ospedali, scuola, centri anti-violenza, associazioni, parrocchie, vicinato, università) talvolta sono lente, disattente, passive, e come prima reazione in genere si tende a non prestare fiducia a quello che la donna racconta o a sminuirne la portata.
Quali sono i comportamenti violenti perpetrati abitualmente a livello psicologico, sociale, economico, che la maggior parte di noi donne italiane non riconosce come tale?Le violenze verbali e psicologiche sono le prime a comparire e sono anche quelle più nascoste. Infatti solo i referti medici che mostrano la violenza fisica fanno iniziare di fatto l’iter della difesa giuridica della donna. Poi arrivano lo stalking e la privazione economica. La violenza sociale, che emerge chiaramente in tutte le narrazioni delle donne, si manifesta nell’isolamento della famiglia e nella difficoltà dei minori testimoni di violenza a stabilire relazioni con i pari. Il danno al minore, di cui la nostra ricerca Daphne III si è occupata, è ancora tutto da esplorare.
Maxi operazione in 141 paesi contro la pedofilia
Una maxi operazione di polizia contro la pedofilia, condotta in 141
paesi, ha permesso di identificare centinaia di pedofili su internet. Lo
ha annunciato la polizia giudiziaria federale austriaca. Denominata
«Carole» e iniziata circa un anno fa, l'operazione ha permesso di
identificare solo in Austria 272 pedofili, che hanno diffuso online
materiali pedopornografici. Si tratta della più importante operazione di
polizia contro la pedofilia su internet mai condotta in Austria e nel
mondo. La grande mole di informazioni e materiali raccolti sono al
vaglio delle autorità di polizia nei 141 paesi coinvolti
nell'operazione.
A FIRENZE - Anche in Italia è scattata un'operazione antipedofilia: la polizia postale di Firenze ha eseguito 18 perquisizioni in varie città italiane, denunciando 20 soggetti, tre dei quali in stato di arresto, per detenzione di ingente quantitativo di materiale pedopornografico. I video e le immagini sequestrate riguardano per la maggior parte ragazzi in età adolescenziale e bambini in tenera età, anche al di sotto dei 5 anni, intenti a compiere espliciti atti sessuali con adulti e coetanei.
TRE ARRESTI - L'attività ha coinvolto i compartimenti della Polizia postale di diverse città, da Bologna a Catania, Milano, Venezia, Roma e Torino, nonchè le sezioni di Reggio Emilia, Sassari, Varese, Vicenza, Siracusa, Caserta e Macerata.
L'indagine è partita da una segnalazione in cui un utente che riferiva di aver avuto una sessione di chat sul sito www.77chat.com. Da qui veniva appurata la presenza di materiale video pedopornografico diffuso in rete. La Polposta ha individuato e successivamente identificato 18 utenti che in più sessioni si connettevano al sito per acquisire file pedopornografici, catalogarli e custodirli nei propri computer. Le perquisizioni hanno dato tutte esito positivo, quindi sono stati sequestrati parecchi computer. Per tre indagati è scattato l'arresto in flagranza in considerazione della particolare gravità del fatto, ma anche per la quantità e la qualità del materiale video ritrovato. Le immagini sono per lo più prodotte in paesi dell'Est e del continente asiatico.
Ora, saranno catalogate ed inviate presso l'Area Analisi File e Identificazione Minori del Centro Nazionale Contrasto Pedopornografia Online (CNCPO) per poi essere selezionate ed inviate presso la banca dati Interpol di Lione (Francia).
A FIRENZE - Anche in Italia è scattata un'operazione antipedofilia: la polizia postale di Firenze ha eseguito 18 perquisizioni in varie città italiane, denunciando 20 soggetti, tre dei quali in stato di arresto, per detenzione di ingente quantitativo di materiale pedopornografico. I video e le immagini sequestrate riguardano per la maggior parte ragazzi in età adolescenziale e bambini in tenera età, anche al di sotto dei 5 anni, intenti a compiere espliciti atti sessuali con adulti e coetanei.
TRE ARRESTI - L'attività ha coinvolto i compartimenti della Polizia postale di diverse città, da Bologna a Catania, Milano, Venezia, Roma e Torino, nonchè le sezioni di Reggio Emilia, Sassari, Varese, Vicenza, Siracusa, Caserta e Macerata.
L'indagine è partita da una segnalazione in cui un utente che riferiva di aver avuto una sessione di chat sul sito www.77chat.com. Da qui veniva appurata la presenza di materiale video pedopornografico diffuso in rete. La Polposta ha individuato e successivamente identificato 18 utenti che in più sessioni si connettevano al sito per acquisire file pedopornografici, catalogarli e custodirli nei propri computer. Le perquisizioni hanno dato tutte esito positivo, quindi sono stati sequestrati parecchi computer. Per tre indagati è scattato l'arresto in flagranza in considerazione della particolare gravità del fatto, ma anche per la quantità e la qualità del materiale video ritrovato. Le immagini sono per lo più prodotte in paesi dell'Est e del continente asiatico.
Ora, saranno catalogate ed inviate presso l'Area Analisi File e Identificazione Minori del Centro Nazionale Contrasto Pedopornografia Online (CNCPO) per poi essere selezionate ed inviate presso la banca dati Interpol di Lione (Francia).
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La morte ti fa bella: i prodotti pubblicizzati più attraenti
Secondo uno studio condotta da ricercatori dell’Università di Rochester,
i riferimenti alla morte nei programmi televisivi renderebbe più
attraenti i prodotti pubblicizzati.
La ricerca ha confermato un’ipotesi legata alla cosiddetta “Terror Management Theory”
che tra le altre cose teorizza che quando una persona è di fronte a
elementi che ricordano la morte, tende a rafforzare le tendenze
materialistiche.
Presentando a due gruppi di soggetti una serie di pubblicità di prodotti è stato verificato che il gruppo che in precedenza aveva visto delle clip con scene di morte aveva avuto una impressione molto più favorevole di prodotti, rispetto al gruppo che invece aveva visto clip “neutre”.
Presentando a due gruppi di soggetti una serie di pubblicità di prodotti è stato verificato che il gruppo che in precedenza aveva visto delle clip con scene di morte aveva avuto una impressione molto più favorevole di prodotti, rispetto al gruppo che invece aveva visto clip “neutre”.
Il magistrato di ferro? una donna: dalla pedofilia alle cosche
Si è occupata di violenza sessuale su minori, criminalità organizzata,
usura, assenteismo e di reati ambientali prima di arrivare a diventare
l’ incubo dell’Ilva.
Anna Patrizia Todisco, il giudice per le indagini
preliminari di Taranto che ha firmato l’ordinanza di sequestro dell’area
a caldo, ma anche i provvedimenti di specifica e la revoca della
custodia a Ferrante, è una donna di 49 anni, magra, capelli corti con
sfumature rosse, segno zodiacale Toro, piglio più che deciso. Ha alle
spalle una carriera all’insegna della difesa dei più deboli, i colleghi
la definiscono «molto riservata e preparata». È nata a Taranto e ha da
sempre negli occhi il profilo delle ciminiere dell’Ilva.
ENTRA in magistratura nel 1993, arrivando tra i primi del suo concorso. L’ottima posizione in graduatoria le consente di scegliere la sede di lavoro e lei decide di rimanere a Taranto. Dal ’95 lavora presso il tribunale dei minori, poi passa al penale.
Qui affronta casi di violenza in famiglia, ma anche di pedofilia: nel 2007, fece arrestate 21 uomini per aver abusato di due sorelle con grave disagio mentale, senza famiglia e senza alcun sostegno sociale.
Persegue anche i clan ionico-salentini e i loro legami con la Sacra corona unita con un’operazione che nel 2009 porta in carcere 43 affiliati, per arrivare ad un caso di ‘lupara bianca’ nel 2011. Il suo nome è finito anche nel ‘caso dei casi’, quello di Avetrana.
Dopo l’omicidio di Sarah Scazzi, Patrizia Todisco si reca nel carcere di Taranto per la convalida di arresto di un detenuto. Nello stesso istituto è rinchiusa Sabrina Misseri, la cugina di Sarah accusata dell’omicidio.
In un’informativa riservata, poi pubblicata, il magistrato racconta: «Mentre attendevo nella sala magistrati transitava un agente di polizia penitenziaria il quale, rivolgendosi a me, profferiva con aria sconfortata una frase del tipo ‘dottoressa, non ce la facciamo più’. Per far capire a cosa si riferisse, racconta la Todisco, il poliziotto «passandomi davanti mi mostrava velocemente un foglio, ponendolo di fronte a me ed indicandomi il nome che vi compariva nella parte superiore e che riuscivo appena a leggere: ‘Misseri Sabrina’».
Da lì si apre un’indagine interna per capire se il foglio mostrato al giudice fosse una lettera che Sabrina avrebbe tentato di far uscire dal carcere o una semplice richiesta di colloquio che non avrebbe avuto seguito.
Anna Patrizia Todisco |
ENTRA in magistratura nel 1993, arrivando tra i primi del suo concorso. L’ottima posizione in graduatoria le consente di scegliere la sede di lavoro e lei decide di rimanere a Taranto. Dal ’95 lavora presso il tribunale dei minori, poi passa al penale.
Qui affronta casi di violenza in famiglia, ma anche di pedofilia: nel 2007, fece arrestate 21 uomini per aver abusato di due sorelle con grave disagio mentale, senza famiglia e senza alcun sostegno sociale.
Persegue anche i clan ionico-salentini e i loro legami con la Sacra corona unita con un’operazione che nel 2009 porta in carcere 43 affiliati, per arrivare ad un caso di ‘lupara bianca’ nel 2011. Il suo nome è finito anche nel ‘caso dei casi’, quello di Avetrana.
Dopo l’omicidio di Sarah Scazzi, Patrizia Todisco si reca nel carcere di Taranto per la convalida di arresto di un detenuto. Nello stesso istituto è rinchiusa Sabrina Misseri, la cugina di Sarah accusata dell’omicidio.
In un’informativa riservata, poi pubblicata, il magistrato racconta: «Mentre attendevo nella sala magistrati transitava un agente di polizia penitenziaria il quale, rivolgendosi a me, profferiva con aria sconfortata una frase del tipo ‘dottoressa, non ce la facciamo più’. Per far capire a cosa si riferisse, racconta la Todisco, il poliziotto «passandomi davanti mi mostrava velocemente un foglio, ponendolo di fronte a me ed indicandomi il nome che vi compariva nella parte superiore e che riuscivo appena a leggere: ‘Misseri Sabrina’».
Da lì si apre un’indagine interna per capire se il foglio mostrato al giudice fosse una lettera che Sabrina avrebbe tentato di far uscire dal carcere o una semplice richiesta di colloquio che non avrebbe avuto seguito.
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La chiesa cattolica deve svelare gli abusi
opera di Claudio Bimbi |
C’è chi dice che non si tratta di pedofilia e piuttosto di abuso di
minore, chi dice che non è poi così grave perché la ragazzina è già
adolescente e "si sa oggi le ragazzine come vanno in giro".
Don Ruggeri già l’anno scorso si macchiò di tale indecente e pernicioso argomento quando riprese la famiglia della minorenne violentata a Fano durante la notte bianca -scrivendo che l’abito delle ragazzine può rappresentare una provocazione.
Già forse era caduto allora nella trappola del giudizio su come si veste una ragazzina, al fine di giustificare indegnamente lo sguardo laido di chi quel corpo vuole vedere e guarda.
Occorre fare chiarezza sulle considerazioni culturali che portano a minimizzare il fatto da parte dell’opinione comune ma principalmente è necessario capire, senza paura, che cosa abbiamo di fronte.
Chiamiamolo pedofilia o abuso su minore -comunque sia si tratta di un gravissimo fatto di violenza che si basa sul potere di una figura adulta, di un uomo maturo, di un educatore e per giunta prete- che vuole eroticamente e psicologicamente avere potere sulla mente immatura, sull’immaginario in formazione, sul corpo adolescente di una ragazzina.
Il legame che si instaura tra un uomo maturo che abusa di una minore e la minore abusata è quanto di più doloroso possa costituirsi in una relazione umana.
Don Ruggeri già l’anno scorso si macchiò di tale indecente e pernicioso argomento quando riprese la famiglia della minorenne violentata a Fano durante la notte bianca -scrivendo che l’abito delle ragazzine può rappresentare una provocazione.
Già forse era caduto allora nella trappola del giudizio su come si veste una ragazzina, al fine di giustificare indegnamente lo sguardo laido di chi quel corpo vuole vedere e guarda.
Occorre fare chiarezza sulle considerazioni culturali che portano a minimizzare il fatto da parte dell’opinione comune ma principalmente è necessario capire, senza paura, che cosa abbiamo di fronte.
Chiamiamolo pedofilia o abuso su minore -comunque sia si tratta di un gravissimo fatto di violenza che si basa sul potere di una figura adulta, di un uomo maturo, di un educatore e per giunta prete- che vuole eroticamente e psicologicamente avere potere sulla mente immatura, sull’immaginario in formazione, sul corpo adolescente di una ragazzina.
Il legame che si instaura tra un uomo maturo che abusa di una minore e la minore abusata è quanto di più doloroso possa costituirsi in una relazione umana.
Difficilmente la vittima riconoscerà tutto il male che le è stato fatto perché è stata plagiata dal potere di una mente adulta nel momento della crescita, nel momento in cui non si è capaci di scegliere con la maturità per dire sì o no di fronte a chi si pone con l’autorevolezza di un educatore.
Spesso l’adescamento del minore avviene nelle maniere più facili, legate alla vita quotidiana e alle abitudini del minore ed è atto a stabilire un contatto speciale e segreto per poi costruire la gabbia della segreta relazione di potere da parte di un carnefice che si fa assecondare dalla sua vittima.
Chi tende a sminuire il gravissimo fatto che ha portato in carcere Don Ruggeri poggia le sue argomentazioni su un altro aspetto che cela una gravissima mistificazione del concetto stesso di violenza sessuale.
Per motivo di immaturità civile dovuta al maschilismo imperante nella nostra ignorante società -si intende per violenza sessuale lo stupro e in particolare la penetrazione- si continua purtroppo a credere che se non c’è la penetrazione non ci sia la violenza sessuale.
Questo retaggio di una mentalità maschilista concentrata sul primato fallico e sul mito della verginità, non comprende che la violenza avviene ed è una gravissima lesione dei diritti umani, tutte le volte in cui una esperienza sessuale è imposta.
La violenza sessuale c’è sempre quando si tratta di un rapporto sessuale tra un adulto e un minore affidato a questo adulto e plagiato dalla più forte, decisa e matura volontà altrui.
La Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza riconosce ai minori (bambini e adolescenti) il diritto alla protezione da ogni sfruttamento sessuale, abuso o violenza (articoli 19, 32, 34).
Il processo di ratifica della Convenzione di Lanzarote contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali in Italia è in fase di completamento, permetterà di inserire nel Codice Penale molti reati che oggi non sono perseguibili: adescamento di minore, pedofilia culturale e pedopornografia.
Stiamo parlando di reati gravissimi che riguardano l’abuso di potere per fini erotici con persona minorenne, qualcosa che ferisce e mette in pericolo profondamente l’equilibrio mentale della vittima di abuso, la quale avrà uno sviluppo della propria vita indipendente e matura segnato per sempre dalla sofferenza di un’esperienza di negazione o soggiogamento della propria volontà.
La filosofa Martha Nussbaum, consulente per le Nazioni Unite in tema di sviluppo di programmi di protezione dei diritti umani, si concentra sul concetto di capacità umana fondamentale da sviluppare in ogni essere umano perché possa dirsi titolare di diritti umani.
Nussbaum scrive che Integrità fisica è essere in grado di muoversi liberamente da un luogo all’altro; avere assicurata la sovranità sul proprio corpo, ovvero poter essere al riparo da ogni tipo di violenza, inclusa l’aggressione sessuale, l'abuso sessuale su minori e la violenza domestica; avere la possibilità di trovare soddisfazione sessuale e di scegliere in materia di riproduzione.
Ma continua la sua riflessione trattando anche di Emozioni: Essere in grado di avere legami con persone e cose al di fuori di noi stessi; poter amare chi ci ama e si interessa di noi, soffrire per la loro assenza; in generale, amare, soffrire, sentire mancanza, gratitudine e rabbia giustificata.
Avere uno sviluppo emotivo non rovinato da eccessiva paura e ansia, o da eventi traumatici come abusi o incuria.
Nell’abuso o pedofilia, nella violenza così come è stata configurata nel caso fanese, questi punti fondamentali che orientano oggi i diritti umani, sono stati violati.
Sminuire o giustificare o insabbiare è sostenere il clima di violazione di tali diritti, per noi è essere conniventi con il clima culturale che rende possibile tale violenza.
A nostro avviso è grave che il padre della ragazza abbia esternato alla stampa la sua convinzione circa l’inconsistenza dei fatti prima di aver visionato le prove e prima che sua figlia potesse essere ascoltata da psicologa e giudice. In questo modo può aver condizionato la possibilità della figlia di esprimersi liberamente.
Grave anche che non si oda provenire da parte della Curia fanese né della comunità cattolica locale né da quella politica una parola critica; sappiamo bene che purtroppo all’interno della Chiesa cattolica, istituzione fortemente patriarcale, sono scarsi gli strumenti per trattare della questione maschile e quindi anche della violenza maschile sulle donne e sui minori.
Ma le parole che vorremmo ascoltare, e con noi sicuramente tante e tanti credenti, sono almeno quelle del Cardinale Scicluna che ha criticato le recenti Linee Guida della Cei, le quali sostengono il non obbligo di denunciare alle autorità civili i casi di pedofilia, e nemmeno si pongono il problema di chi convince a non denunciare.
Le Linee Guida confermano purtroppo la liceità di non portare a conoscenza della magistratura le eventuali prove di cui possono essere a conoscenza i Vescovi.
Di fronte alla considerazione che tale istituzione gestisce servizi all’infanzia e all’adolescenza, spesso finanziati dallo Stato, chiediamoci quali garanzie di tutela abbiamo noi genitori nei confronti della serenità e della felicità dei nostri figli se la politica che persegue la Chiesa cattolica è questa ed è criticata -anche se con voce minoritaria- al suo interno.
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Annuncio urgente!!!
FRANCESCA ARKEL ,15 anni
Si pensava ad una bravata .....
ma ora la preoccupazione cresce !!!!
SCOMPARSA DA VARAZZE LUNEDI' 23 LUGLIO
NEL CASO LA VEDESTE CHIAMARE
SUBITO I SEGUENTI NUMERI :
388-3542179 MAMMA
348-0462253 FRATELLO (FEDERICO )
CARABINIERI DI CAIRO : 019-504008
CARABINIERI DI SAVONA:019-850614
CARABINIERI DI VARAZZE: 019:93179
...L'infanzia
L'infanzia
una volta era tutelata e ora è sottoposta non alla cultura del '900, ma
ad una cultura primitiva, esposta di continuo alla violenza e alla
stimolazione sessuale.
-Susanna Tamaro-
Una città per sole donne
Presto le donne dell’Arabia Saudita avranno una città tutta per loro.
Non hanno ancora la possibilità di votare e di guidare l’automobile, ma per loro le Autorità monarchiche hanno deciso di costruire una città industriale/commerciale nei pressi di Hofuf, nell’est del Paese.
L’opera, che dovrebbe esser pronta per il prossimo anno, consentirà alle signore di intraprendere attività lavorative e di impiegare le loro connazionali senza andare contro le norme della loro religione che regolano i rapporti fra i sessi.
Il direttore del progetto ha detto al Guardian di essere “sicuro che le donne possono così dimostrare la loro efficacia in molti settori e scegliere le attività che rispondono meglio ai loro interessi, natura e capacità”.
Il progetto porterà 5.000 posti di lavoro nel settore tessile, farmaceutico e alimentare.
Verranno costruite anche abitazioni, in modo che le donne possano essere vicine al loro impiego. Questa idea, nata per iniziativa di imprenditori sauditi, mira essenzialmente a trovare opportunità per le giovani laureate. “La nuova città industriale avrà un centro di formazione per aiutare le donne a sviluppare i loro talenti e insegnare a lavorare nelle fabbriche”, ha detto l’imprenditrice Hussa Al-Aun al giornale Al Eqtisadiah. Le donne saudite hanno difficoltà ad accedere al mercato del lavoro. Possono lavorare come cassiere al supermercato, allo sportello (per sole donne) delle banche e, recentemente, nei negozi di lingerie. Un regio decreto, entrato in vigore nel mese di luglio, hanno anche aperto loro le porte dei negozi di cosmetici. Ma le autorità religiose non vedono di buon occhio questi progressi. Un avviso emanato nel novembre 2010 dal comitato IFTA, che riunisce gli ulema, ha ricordato alle donne, in particolare alle cassiere, che “non era permesso lavorare in luoghi dove possono trovarsi con gli uomini” e che “devono trovare un lavoro dove non possano essere attratte dagli uomini o attirarli”. Anche ai Giochi Olimpici, come si è potuto vedere nelle ultime edizioni di Pechino e Londra, la partecipazione da parte di atlete di alcuni Paesi arabi rimane problematica.
Non hanno ancora la possibilità di votare e di guidare l’automobile, ma per loro le Autorità monarchiche hanno deciso di costruire una città industriale/commerciale nei pressi di Hofuf, nell’est del Paese.
L’opera, che dovrebbe esser pronta per il prossimo anno, consentirà alle signore di intraprendere attività lavorative e di impiegare le loro connazionali senza andare contro le norme della loro religione che regolano i rapporti fra i sessi.
Il direttore del progetto ha detto al Guardian di essere “sicuro che le donne possono così dimostrare la loro efficacia in molti settori e scegliere le attività che rispondono meglio ai loro interessi, natura e capacità”.
Il progetto porterà 5.000 posti di lavoro nel settore tessile, farmaceutico e alimentare.
Verranno costruite anche abitazioni, in modo che le donne possano essere vicine al loro impiego. Questa idea, nata per iniziativa di imprenditori sauditi, mira essenzialmente a trovare opportunità per le giovani laureate. “La nuova città industriale avrà un centro di formazione per aiutare le donne a sviluppare i loro talenti e insegnare a lavorare nelle fabbriche”, ha detto l’imprenditrice Hussa Al-Aun al giornale Al Eqtisadiah. Le donne saudite hanno difficoltà ad accedere al mercato del lavoro. Possono lavorare come cassiere al supermercato, allo sportello (per sole donne) delle banche e, recentemente, nei negozi di lingerie. Un regio decreto, entrato in vigore nel mese di luglio, hanno anche aperto loro le porte dei negozi di cosmetici. Ma le autorità religiose non vedono di buon occhio questi progressi. Un avviso emanato nel novembre 2010 dal comitato IFTA, che riunisce gli ulema, ha ricordato alle donne, in particolare alle cassiere, che “non era permesso lavorare in luoghi dove possono trovarsi con gli uomini” e che “devono trovare un lavoro dove non possano essere attratte dagli uomini o attirarli”. Anche ai Giochi Olimpici, come si è potuto vedere nelle ultime edizioni di Pechino e Londra, la partecipazione da parte di atlete di alcuni Paesi arabi rimane problematica.
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CILE, ALUNNA ABUSATA DA SACERDOTE : "ERA LA GUIDA SPIRITUALE DELLA SCUOLA"
SANTIAGO
DEL CILE - È stato sospeso da uno dei più prestigiosi istituti
scolastici di Santiago Del Cile, il Colegio Cumbres, per presunti abusi
sessuali su un'alunna.
Il sacerdote di origine irlandese John ÒReilly,
appartenente ai Legionari di Cristo, è stato sospeso dalla sua attività
come direttore spirituale in seguito alla denuncia della famiglia della
giovane, che ha raccontato di molestie subite dal 2010 al 2012.
Lo ha reso noto la stessa scuola in un comunicato ai genitori degli allievi, precisando che il sacerdote si è detto innocente e pronto a collaborare con la giustizia. In merito, il quotidiano on line 'El Mostrador', rileva che il Colegio Cumbres, appartiene alla Congregazione dei Legionari di Cristo fondata dal messicano Marcial Maciel e che John ÒReilly è legato alle famiglie più ricche del Paese ed ha abituali contatti con l'establishment imprenditoriale. Da rilevare che la misura dell'istituto, situato in una zona residenziale di Santiago, avviene ad una sola settimana in cui la Procura della Repubblica ha avviato le indagini, sempre per presunti casi di pedofilia, in altre 48 scuole della stessa aerea della capitale. Per altro, solo due giorni prima, lo stesso presidente Sebastian Pinera ha annunciato una decina di misure per arginare i crescenti casi di abusi sessuali nei confronti di minorenni in tutto il Paese, situazione ritenuta da molti una sorta di piaga sociale.
Lo ha reso noto la stessa scuola in un comunicato ai genitori degli allievi, precisando che il sacerdote si è detto innocente e pronto a collaborare con la giustizia. In merito, il quotidiano on line 'El Mostrador', rileva che il Colegio Cumbres, appartiene alla Congregazione dei Legionari di Cristo fondata dal messicano Marcial Maciel e che John ÒReilly è legato alle famiglie più ricche del Paese ed ha abituali contatti con l'establishment imprenditoriale. Da rilevare che la misura dell'istituto, situato in una zona residenziale di Santiago, avviene ad una sola settimana in cui la Procura della Repubblica ha avviato le indagini, sempre per presunti casi di pedofilia, in altre 48 scuole della stessa aerea della capitale. Per altro, solo due giorni prima, lo stesso presidente Sebastian Pinera ha annunciato una decina di misure per arginare i crescenti casi di abusi sessuali nei confronti di minorenni in tutto il Paese, situazione ritenuta da molti una sorta di piaga sociale.
Uomini che picchiano le donne
Botte e omicidi passionali. E le vittime aumentano. Così a Modena provano a curare i molestatori. Sul modello norvegese. di Paola Fantauzzi
Vanessa Scialfa, vent’anni appena, è stata strangolata e poi buttata da un cavalcavia dal suo ragazzo perché avrebbe pronunciato per sbaglio il nome del suo ex.
Delle altre, come Fabiola Speranza, Rosetta Trovato o Enza Cappuccio, nessuno ricorda nemmeno la storia. È una scia di sangue senza fine e dalla progressione agghiacciante, la violenza sulle donne:
119 quelle uccise nel 2009
127 nel 2010
137 nel 2011
già una sessantina nel 2012.
In media più di una ogni tre giorni. Un’emergenza a tutti gli effetti, che però non pare essere percepita come tale nel Paese che fino a trent’anni fa nei processi ancora concedeva le attenuanti al delitto d’onore.
Non solo: l’attenzione è rivolta quasi esclusivamente alle vittime dei maltrattamenti, sebbene solo intervenendo anche sugli autori possa esserci vera tutela.
È proprio partendo da questo assunto che a Modena opera da sei mesi “Liberiamoci dalla violenza”, un centro specializzato per gli uomini responsabili di abusi aperto dalla Ausl (Azienda unità sanitaria locale) con la collaborazione delll’istituto di Oslo Atv (Alternative to violence, alternativo alla violenza), che in Europa vanta la maggiore esperienza nel campo.
È la prima struttura completamente pubblica in Italia di questo tipo, del tutto gratuita. La sede è all’interno di un consultorio e a eccezione di una sociologa sanitaria che coordina il progetto, lo staff è tutto al maschile: uno psicoterapeuta e due psicologi. Minimo l’impegno di spesa: due anni fa la Regione Emilia Romagna ha finanziato l’avvio con 35 mila euro, impiegati per lo più per la formazione, svolta da esperti norvegesi. In questi giorni ne ha erogati altri 15 mila per il 2012.
Nel caseggiato giallo e grigio che ospita il centro non ci sono le belve peggiori: chi è arrivato qui lo ha fatto di propria iniziativa. Uomini che davanti alle percosse ripetute e alle compagne mandate in ospedale hanno capito di non farcela da soli a uscire da un gorgo di brutalità e sopraffazione e hanno chiesto aiuto.
Vanessa Scialfa, vent’anni appena, è stata strangolata e poi buttata da un cavalcavia dal suo ragazzo perché avrebbe pronunciato per sbaglio il nome del suo ex.
Delle altre, come Fabiola Speranza, Rosetta Trovato o Enza Cappuccio, nessuno ricorda nemmeno la storia. È una scia di sangue senza fine e dalla progressione agghiacciante, la violenza sulle donne:
119 quelle uccise nel 2009
127 nel 2010
137 nel 2011
già una sessantina nel 2012.
In media più di una ogni tre giorni. Un’emergenza a tutti gli effetti, che però non pare essere percepita come tale nel Paese che fino a trent’anni fa nei processi ancora concedeva le attenuanti al delitto d’onore.
Non solo: l’attenzione è rivolta quasi esclusivamente alle vittime dei maltrattamenti, sebbene solo intervenendo anche sugli autori possa esserci vera tutela.
È proprio partendo da questo assunto che a Modena opera da sei mesi “Liberiamoci dalla violenza”, un centro specializzato per gli uomini responsabili di abusi aperto dalla Ausl (Azienda unità sanitaria locale) con la collaborazione delll’istituto di Oslo Atv (Alternative to violence, alternativo alla violenza), che in Europa vanta la maggiore esperienza nel campo.
È la prima struttura completamente pubblica in Italia di questo tipo, del tutto gratuita. La sede è all’interno di un consultorio e a eccezione di una sociologa sanitaria che coordina il progetto, lo staff è tutto al maschile: uno psicoterapeuta e due psicologi. Minimo l’impegno di spesa: due anni fa la Regione Emilia Romagna ha finanziato l’avvio con 35 mila euro, impiegati per lo più per la formazione, svolta da esperti norvegesi. In questi giorni ne ha erogati altri 15 mila per il 2012.
Nel caseggiato giallo e grigio che ospita il centro non ci sono le belve peggiori: chi è arrivato qui lo ha fatto di propria iniziativa. Uomini che davanti alle percosse ripetute e alle compagne mandate in ospedale hanno capito di non farcela da soli a uscire da un gorgo di brutalità e sopraffazione e hanno chiesto aiuto.
mercoledì 15 agosto 2012
Adesca 12 ragazzine sul web,poi le stupra davanti alla telecamera
Non gli bastava abusare di ragazzine al di sotto dei 14 anni, ma per
aumentare il piacere della sua perversione amava anche immortalare le
violenze con una telecamera.
Ci sono voluti cinque mesi di indagini per scoprire tutti i retroscena legati a Mario P. 45enne di Canosa arrestato lo scorso 29 dicembre in seguito a una denuncia della compagna per aver violentato ripetutamente la figlia di lei.
La donna, a cui la ragazzina che all'epoca dei fatti aveva solo 12 anni ha raccontato le ripetute violenze sessuali durate dall'inizio del 2012 alla fine del 2011, non immaginava che quell'uomo con cui viveva in zona Porta Venezia potesse essere un orco per almeno altre 12 bambine. I carabinieri, infatti, proprio nell'appartamento dell'uomo hanno trovato un archivio di dvd senza etichetta e una ventina di video, che si uniscono a materiale perdopornografico trovato sul computer.
In alcuni video c'è la figlia della compagna, ma non è l'unica bambina protagonista delle scene sessuali. Gli esperti informatici sono così riusciti a ricostruire gli adescamenti di altre ragazzine, le date, le proposte, le violenze. Alle vittime è stata mostrata una foto dell'uomo, e in dodici l'hanno riconosciuto, ma gli investigatori suppongono che l'elenco sia destinato a crescere.
Ci sono voluti cinque mesi di indagini per scoprire tutti i retroscena legati a Mario P. 45enne di Canosa arrestato lo scorso 29 dicembre in seguito a una denuncia della compagna per aver violentato ripetutamente la figlia di lei.
La donna, a cui la ragazzina che all'epoca dei fatti aveva solo 12 anni ha raccontato le ripetute violenze sessuali durate dall'inizio del 2012 alla fine del 2011, non immaginava che quell'uomo con cui viveva in zona Porta Venezia potesse essere un orco per almeno altre 12 bambine. I carabinieri, infatti, proprio nell'appartamento dell'uomo hanno trovato un archivio di dvd senza etichetta e una ventina di video, che si uniscono a materiale perdopornografico trovato sul computer.
In alcuni video c'è la figlia della compagna, ma non è l'unica bambina protagonista delle scene sessuali. Gli esperti informatici sono così riusciti a ricostruire gli adescamenti di altre ragazzine, le date, le proposte, le violenze. Alle vittime è stata mostrata una foto dell'uomo, e in dodici l'hanno riconosciuto, ma gli investigatori suppongono che l'elenco sia destinato a crescere.
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