Ingannevole è il web più di ogni cosa. E nelle sue maglie intricate
nasconde zelanti volontari che clonano siti e pagine contro la violenza sulle donne,
per lanciare messaggi sessisti (i centri antistupro? Covi del male. Le
mogli separate? Sono nazifemministe). Siamo andati a fondo e abbiamo
scoperto che oltre al folklore macho c'è di più. E ci riguarda tutti.
«Ho
ricevuto una richiesta d'intervista da qualcuno che sostiene di essere
una vostra giornalista. Chiedo conferma della sua identità, perché sono
continuamente sotto attacco». Questo messaggio, arrivato in redazione,
non l’ha scritto un pentito di mafia sotto scorta ma il rappresentante
di un’associazione che promuove una campagna contro la violenza sulle
donne. Si chiama Davide Insinna, ed è il presidente dellano-profit Nuovi Orizzonti per la quale, qualche tempo fa, ha creato anche una pagina su Facebook chiamata No alla violenza sulle donne.
Una volta raggiunte 95mila adesioni, Insinna si è accorto che qualcuno
aveva aperto una pagina identica alla sua. Quella che nel linguaggio dei
social network si chiama “clonazione”. Stesso nome, stesse immagini, ma
concetti diversi, anzi opposti. E c’è sempre una buona parola per gli
uomini che alzano le mani, infilata tra foto di gattini. Di lì a poco,
la pagina di Insinna è stata soppressa dagli amministratori del social
network per troppe segnalazioni negative (da ignoti), anche se i
contenuti erano politicamente corretti. Il clone, invece,sta ancora lì e
sparge veleni contro le donne. L’ho segnalata e mi è arrivato questo
messaggio: «Non c’è motivo di chiusura, non infrange il nostro
regolamento». Forse è il caso di fare un viaggio in questo mistero un
po′ infernale che, come scopriremo, per fortuna ha “soltanto” tre
gironi.
Sono andata a curiosare da vicino.Il suo
slogan recita: «No alla violenza, alla calunnia, al femminismo e al
maschilismo, no alla censura, no all’alienazione genitoriale e a ogni
altro abuso sull’infanzia». Provando però a scrivere un commento, nei
panni di una vittima di maltrattamenti, responsabili e utenti mi hanno
risposto che «bisogna analizzare i motivi per cui lui ti ha messo le
mani addosso », «sei solo un caso sporadico». E mi è stato raccomandato
di tenermi alla larga dai centri antiviolenza perché sono una truffa.
Insisto. Lancio accuse contro un immaginario compagno violento. La
diplomazia va in fumo. Commentano fra loro, come se non fossi più
presente. «Ma che cazzo dice questa?». «Per me è alcolizzata». «Ecco
come ci ripagano dell’andare a morire in miniera mentre se ne stanno a
casa!». La curiosità aumenta e continuo a mettere il naso nella pagina.
Un post spiega come le principali responsabili di violenza sulle donne
siano le femministe, che istigano i dissapori nella coppia. E trovo una
cover del magazine americano Equality, con strilli che inneggiano alla
sottomissione maschile («Come addestrarlo a passare
l’aspirapolvere», «Ecco perché un uomo ti deve soddisfare a letto, e non
viceversa»), esibita come prova del complotto femminista
internazionale. Contatto Charles Joughin, portavoce americano di Equality,
per un chiarimento. Ma quando gli mando la copertina, resta di stucco.
«Mai fatta una cover del genere. Noi ci occupiamo dei diritti di
categorie discriminate, non siamo una rivista femminista e non usiamo
questo linguaggio».
Ma se la cover non l'hanno fatta loro, con
tanto di codice a barre, da dove salta fuori? La confusione
aumenta. Contatto uno dei gestori della pagina per capirne di più. Lui
accetta di parlare purché anonimo e tramite un indirizzo email intestato
al Comitato Pari Opportunità. Gli chiedo dove ha sede il comitato e chi
è il presidente. Ma lui si appella alla privacy (ignorando che i
comitati ufficiosi con almeno dieci membri non possono riunirsi, o
incappano nel reato di adunata sediziosa). Segue un sobrio scambio di
domande e risposte dove mi spiega che lo scompenso di retribuzioni tra
uomo e donna non è del 37%, come “mentono” i dati ufficiali, ma solo del
4%; che i governi italiani hanno sempre favorito le donne; che «il
bunga bunga a Berlusconi costa meno del mantenimento della sua ex
moglie». E ancora: che «il femminismo italiano di basso livello punta a
usare i figli per appropriarsi di case e assegni mensili»; che i centri
antiviolenza «fingono di proteggere donne e bambini e calunniano i
padri per privarli dei figli»; e che «centinaia di uomini muoiono per
mano delle donne, ma la stampa tace».
L’anonimo mi parla poi di Erin Pizzey, 73enne
scrittrice inglese, fondatrice dei rifugi per donne maltrattate, che
sostiene di aver ricevuto minacce dopo aver affermato che le donne sono
violente quanto gli uomini. Quando gli chiedo il perché del successo
della pagina (469mila adesioni), risponde che dipende «dal coraggio di
aver detto le cose come stanno». Provo allora a interpellare a caso una
ventina dei suoi iscritti, e diciassette mi rispondono di aver cliccato
“mi piace” ingannati dal titolo e di non essersi mai accorti dei
contenuti. Intanto, l’anonimo signore mi fornisce una serie di link che
portano a siti con indirizzi che mi sembra di aver già sentito,
come iodonna.biz, epressonline.info (no, non è un refuso) che mettono
in guardia sulle “nazifemministe”. Che sono colpevoli di inculcare nei
bambini la Pas. Cos’è? «È la sindrome di alienazione genitoriale», mi
spiega la psicoterapeuta e blogger Roberta Milzoni. «Ovvero quando il
bambino non vuole vedere più uno dei due genitori: tra i due, in genere,
è il padre. Una reazione che non è necessariamente indotta dalla “mamma
cattiva”: il bambino respira il conflitto tra i due e asseconda il
rancore della madre, avendola più vicina. Anche se lei non parla male
del padre».
Vagando ancora sui siti indicati dall’admin anonimo,
trovo articoli su mogli che fanno a pezzi i mariti e le femministe che
fanno scoppiare petardi in bocca ai cani. Ma nessun altro notiziario
online ne fa cenno. Vorrei sapere dai gestori dei siti quali siano le
loro fonti «esclusive», ma risultano tutti registrati tramite
un provider che gli garantisce l’anonimato. Mi viene un dubbio (e un
brivido): non sarà mica che è tutto in mano a quello stesso giro di
persone che gestiscono la pagina clone? Una cosa è certa. Chi è a capo
della community, ha capito che, se una volta si diceva «è vero, l’ho
sentito in tv», oggi molti abboccano a quello che leggono su internet. E
cliccano, commentano, condividono. Spesso, senza verificare.
Ma gestire tutta questa roba è dura.Richiede
un dispendio di energie e di soldi, e il livello d’attenzione
s’abbassa. Così, durante l’intervista via email, l’anonimo
amministratore manda risposte con il suo vero nome e cognome. Che, se
non si tratta dell’ennesimo trucchetto fuorviante, corrispondono a un
padre toscano abbandonato dalla moglie orientale - una geisha che l’ha
deluso?, penso - e assolto da un processo per maltrattamenti, da cui è
risultato «incapace di fare del male». L’anonimato serve a non smentire
la sentenza? Sarà per lo stesso motivo che affida i commenti più forti
all’identità di Lorella Tollastro, un’attrice che per portarsi avanti
con il divismo non rilascia interviste. Peccato che non compaia in
nessun database cinematografico. Ma un papà pieno di rancore, quanti
danni potrà mai fare nella sua ricerca di vendetta? Prima dell’avvento
dei social network non molti. Ora, invece, si colloca al secondo livello
di una scala di tre, che compone la classe dei neomisogini o
mascolinisti. Il primo livello, la base, è composta da banali
sessisti. Ci sono i sexist trolls, i dispettosi che intervengono in uno
scambio di opinioni tra ragazze e scrivono commenti del tipo: «Che ci
fanno tutte queste donne fuori dalla cucina?». E ci sono quelli che, in
un gruppo Facebook di tifoseria, se la ridono per la vignetta di una
donna scazzottata dal suo uomo o per il fumetto del tizio che calcia giù
dalle scale la fidanzata incinta (la battuta: «Amore, sento un
calcetto»). Tutti sintomi di una blanda forma di maschilismo conclamato,
di cui, talvolta, non si rendono conto nemmeno quelli al di sopra di
ogni sospetto. Di sicuro, la maggioranza di quelli che
scherzano sull’argomento non metterebbe mai le mani addosso a una
donna e i loro commenti potrebbero solo sembrare di cattivo gusto. Il
vero guaio è che, ora, questa categoria rischia di essere
strumentalizzata.
E, infatti, arriviamo al secondo livello.Quello
composto proprio dai volenterosi attivisti della rete, vedi i
gestori della pagina clone e quelli che scrivono gli articoli per i siti
amici: ne fanno parte uomini arrabbiati, magari dopo un divorzio, che
si trovano disorientati da situazioni di coppia e di famiglia che non
sono (o non sono state) come loro le vorrebbero. Fanno proselitismo
pascolando tra le distratte pecorelle del livello uno. Lo psicologo
Alessandro Vassalli ne traccia un profilo dettagliato. «Esistono due
tipi di uomini che ce l’hanno con le donne: quelli che avevano una madre
assente, come Schopenhauer, e quelli che hanno sviluppato disprezzo
verso una madre che non reagiva alla violenza del padre. Si chiama
controidentificazione. Come per dire: “Sto con papà perché tu sei un
verme, io sono altro da te”. Succede anche alle donne, ed è per questo
motivo che poche di loro reagiscono alle battutacce maschiliste: pensano
“non sono come quella che stai sfottendo, io sono migliore”». Ma perché
tanto accanimento? «Perché questi uomini non imparano a elaborare il
dolore. Rimangono prigionieri della rabbia, che è un sentimento più
facile ma li tiene ancorati in modo ossessivo all’esperienza
di mortificazione subita. Finiscono per rifugiarsi in un ideale di
femmina perfetta che si occupi solo di loro e rimanga a disposizione,
qualsiasi cosa accada. Quando invece la compagna si ribella e avanza
delle pretese, infrange il loro sogno. E per loro l’unica strada per
venirne fuori è la vendetta». “Vendetta” significa anche clonare una
pagina Facebook per invitare vittime inconsapevoli a non ricorrere mai
ai centri di accoglienza per quelle che vogliono lasciare il loro uomo.
Forse perché quei centri, certi uomini li conoscono bene: hanno accolto
anche le loro donne in fuga.
E siamo arrivati in cima alla piramide. Sento
Vh, amministratrice di una pagina in difesa della donna (si cela dietro
una sigla per le minacce ricevute). Se il secondo livello non
va sottovalutato, mi dice, il terzo va preso molto sul serio: «Non siamo
preoccupati per i sexist trolls, misogini sciocchi, ma innocui. Ci
preoccupano gli attivisti online come quello della pagina clone perché
negano i dati della violenza, e soprattutto perché fanno il gioco di
poteri forti». Poteri forti? Cosa intende? «Quelli che stanno chiedendo
la discussione di cinque decreti legge, quattro al Senato e uno alla
Camera, per riportare indietro i nostri diritti». Diritti che riguardano
il divorzio, l’affido dei figli, gli alimenti. «È un tentativo
massiccio di ristabilire la figura del patriarca», conclude Vh. E visto
che cercano consensi proprio su internet, la definizione di «Patriarcato
3.0», come dice il giornalista Riccardo Iacona, è azzeccata. Un
patriarcato «che attraverso il femminicidio, l’espressione più grave
della sua mentalità, racconta nel piccolo quello che sta succedendo
su larga scala». Iacona ha condotto un’inchiesta accurata su quello che
sta succedendo in Italia e ha scritto un libro, Strage di
donne (Chiarelettere), in uscita a ottobre, che conferma la
retromarcia di un percorso sulle pari opportunità che già va lento. «I
femminicidi sono la punta dell’iceberg di una violenza endemica»,
spiega. «L’Italia è un paese ostile alle donne. L’unico studio
sulla violenza di genere è stato fatto dall’Istat nel 2007, su dati del
2006. Il fatto che non ne esista uno recente la dice lunga su quanto la
tematica sia bassa nelle priorità della politica». Da quel rapporto si
scopriva che solo il 4% delle donne maltrattate sporge denuncia. «Gli
assassini si sentono angeli vendicatori contro le legittime pretese
proprio delle pari opportunità, visto che la condizione della donna
italiana, secondo i dati Ocse, è quasi pari a quella delle tunisine. Lo
Stato? Latita. Persino in Spagna, paese dove il problema del machismo è
pesantissimo e caldo come da noi, il governo ha lanciato un’intensa
campagna d’informazione. Il risultato? Le donne ammazzate, nel 2011,
sono calate a 61 contro le 138 vittime italiane. Da noi, solo di recente
è stato varato un piano antiviolenza».
Il viaggio è terminato (?!).
E arrivare alla fine è stato difficile. Ora resta da chiedersi come
arginare il problema. Di sicuro, non lasciando sole le donne
maltrattate, e mettendole in guardia sulle trappole dei siti
cattivi. Però. La buona notizia è che nei siti clone e nelle pagine che
vi abbiamo raccontato, i due terzi degli iscritti aderiscono per sbaglio
e in buonafede. Vuol dire che tantissimi sono sinceramente contrari
alla violenza sulle donne. Ed è fra quelli come loro che dobbiamo
scegliere, quando decidiamo di amare qualcuno.
Debora Attanasio
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