Nel 1986 radunò una Agorà in piazza Fontana sul tema della corruzione
politica, e Mani pulite era lontana anni luce. Quattro anni dopo, a
sant’Ambrogio, stupì tutti parlando del rapporto tra noi e l’Islam. Una
figura complessa, la cui eredità spirituale e culturale durerà a lungo
prima di venire completamente compresa e metabolizzata.
Nel novembre del 1986 il cardinale Carlo Maria Martini radunò
nella sede arcivescovile di Piazza Fontana una “Agorà”, un pensatoio
molto riservato sul tema lacerante e ancora sotterraneo della
“corruzione politica” su impulso di un giovane professore di Fisica,
Antonio Ballarin Denti, che era pro-tempore il segretario provinciale
della Dc. A quel tavolo c’era il fior fiore dei cristiani impegnati non
solo nella politica, ma negli enti economici di nomina pubblica: il
quadro disegnato era realistico e preoccupante e vennero fuori ipotesi
innovative di cambiamento e di radicale correzione. Peccato che (e lo
testimonia chi qui scrive, unico giornalista partecipante, ma in quanto
credente) quasi tutti gli invitati finissero poi (non pochi
ingiustamente e poi assolti nei processi) nel tritacarne giudiziario
dell’inchiesta Mani Pulite.
Una prova questa, poco nota, della straordinaria sensibilità del
cardinal Martini nel cercare di cogliere nella realtà ecclesiale e
cittadina le criticità aperte e di sforzarsi di intravedere le vie
d’uscita, non solo per la sua Chiesa ma anche per la città e la sua
comunità civile. D’altronde altrettanto riservato e paziente è stato nel
corso dei decenni l’incontro e il rapporto con quei gruppi e comunità
di “cristiani inquieti” al quale il vescovo, come padre sollecito e
attento, testimoniava insieme la volontà di ascolto e la possibilità di
restare come fermenti vivi anche dentro e a pieno titolo nella
Chiesa-istituzione.
Quando i terroristi delle Brigate Rosse restituirono al cardinale
le armi con le quali avevano insanguinato la vita civile, si capì anche
simbolicamente che la sua strategia di incontro con ogni genere di
“inquieti”, anche i più difficili, ne testimoniava insieme la
sostanziale autorevolezza e il ruolo di supplenza alla politica e alla
burocratica giustizia terrena che (magari senza volerlo) si era trovato
ad esercitare nella fase di eterna transizione e di caduta dell’autorità
che questo Paese, e in particolare la sua “capitale morale” andavano
vivendo e forse da cui non sono ancora usciti.
Il punto di riferimento e la solida roccia che l’Arcivescovo di
Milano venne a rappresentare per l’intera società fu apprezzato e
sentito dagli atei e dagli agnostici quasi più dai cattolici
organicamente raccolti. Certo, le sue iniziative erano a volte
sorprendenti, come la Cattedra per i Non Credenti o le altre infinite
forme di dialogo con i laici. Eppure, con la sua figura imponente e
maestosa, trasmetteva senza sussiego una fiducia e un rispetto non
usuali. La sua capacità di sapersi fare ascoltare dai “lontani” dalla
fede nasceva però dal suo confronto quotidiano con la Parola di Dio di
cui era stato faticoso maestro: ed era la fonte più sicura, se non
l’unica, alla quale continuava ad attingere fin da quando, da affermato
biblista, era stato strappato ai suoi studi da un “colpo di genio” del
papa polacco e costretto ad “imparare sul campo” a fare il vescovo e il
pastore di una diocesi decisiva per la Chiesa e terribilmente
impegnativa per le sole risorse umane.
Semmai aveva messo nel conto, da buon gesuita, che
il ritrovarsi con il suo prestigio culturale “all’onor del mondo” lo
esponeva a facili e ripetute strumentalizzazioni, soprattutto di natura
politica. Eppure non è arbitrario supporre che il suo cercare per Milano
una forma inedita di una “nuova Gerusalemme” (l’amata terra dove
sognava di chiudere la sua esistenza di esegeta e interprete teologico)
lo portava a manifestare l’ansia del nuovo, la difficile missione di
mettere comunque in contatto il groviglio pulsante di una complicata
società contemporanea con i suoi dubbi e le sue sofferenze con
l’eternità del suo Dio.
E non è un caso che, quanto era alto e riverente il rispetto del mondo laico,
altrettanto era ambivalente e talvolta polemico il rapporto con la
complessità quotidiana della sua Chiesa. Che fosse evidente la freddezza
o il tacito dissenso nei confronti di molti movimenti organizzati (a
cominciare da Comunione e Liberazione, peraltro poco amata – anche se
per motivi diversi – dal suo predecessore sulla cattedra di Ambrogio,
Giovanni Colombo) non è certo una scoperta recente. Piuttosto, tra i
doveri di governo del vescovo, sentiva urgente la necessità di rifondare
radicalmente la “macchina” della diocesi e il personale dedicato alla
cura d’anime nell’assetto principale e storico dell’organizzazione
territoriale.
In questo senso con l’inesausta predicazione e la
produzione scritta (dai tantissimi volumi sulla fede cristiana e le
sempre incisive Lettere Pastorali) ha formato intere generazioni di
consacrati (dai preti alle suore) gettati nel mondo ad annunciare la
Parola e insieme a testimoniare il soccorso e l’accoglienza all’umanità
da incontrare ogni giorno nella missione evangelica. Un’impronta così
forte e così carica di tensione spirituale da far apparire talvolta i
“martiniani” come una falange compatta e forse altrettanto chiusa e
autoreferenziale di quella prodotta dai movimenti (CL in testa) da cui
ci si voleva distinguere.
E forse, troppo spesso, Martini è sembrato, anche
nella pubblicistica cattolica (e non solo in quella “laica”) come il
vero “altro Papa”: quello cioè che interpretava una “Chiesa alternativa”
a quella vaticana e faceva della realtà ambrosiana una “Chiesa
acefala”, autosufficiente, e che si bastava da sola a vivere la propria
missione in polemica silenziosa e in sostanziale diversità dal magistero
di Roma. Eppure sarebbe fare un torto alla ricca e complessa
personalità del cardinale (un gigante della cultura e della fede dalle
infinite sfaccettature e dalle mai scontate capacità di innovazione) se
lo si inscatolasse nel bilancio conclusivo in una etichetta
pregiudiziale. Se era ritenuto il “capofila dei progressisti” con
qualche profumo di eresia, ne si immiserirebbe la portata e la sua
inquietudine religiosa a non sfuggire alle domande inedite e
sconvolgenti (non ultima la bioetica) con cui la modernità interpella
soprattutto gli uomini dello spirito.
Perché, forse, sfugge al sentire diffuso e al
complesso mediatico la sofferta fedeltà richiesta ai Gesuiti, quella
cioè del voto speciale di obbedienza “perinde ac cadaver” al primato di
Pietro. Una fedeltà magari più tormentata al carisma pubblico di
Wojtyla, ma certamente più quieta e serena allo studioso e intellettuale
come lui professor Ratzinger. (E non è un caso che nell’ultimo conclave
sia stato proprio Martini a persuadere molti cosiddetti progressisti a
convergere sull’elezione di Benedetto XVI). Perché, e il cardinale lo
sapeva bene, è caratteristica costitutiva della Chiesa ambrosiana, pur
nell’orgoglio della sua originalità perfino liturgica, il legame
profondo e speciale con il successore pro tempore di Pietro.
In conclusione Carlo Maria Martini è stata una figura troppo grande
per essere pianto e salutato soltanto come un semplice principe della
Chiesa. La sua eredità spirituale e culturale durerà a lungo prima di
venire completamente compresa e metabolizzata. Semmai, rispetto proprio
alla vita civile, è stato spesso incompreso perché in realtà era un
“presbite”: e cioè così acuto nel guardare lontano, nel futuro, da
apparire sconcertante al suo presente. Si è citato qui l’esempio della
sensibilità anticipatrice sulla “corruzione politica”, ben prima del
ciclone ambiguo di Mani Pulite.
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