sabato 1 settembre 2012

Analisi Martini guardava così lontano da sembrare sconcertante nel presente

Nel 1986 radunò una Agorà in piazza Fontana sul tema della corruzione politica, e Mani pulite era lontana anni luce. Quattro anni dopo, a sant’Ambrogio, stupì tutti parlando del rapporto tra noi e l’Islam. Una figura complessa, la cui eredità spirituale e culturale durerà a lungo prima di venire completamente compresa e metabolizzata.

Nel novembre del 1986 il cardinale Carlo Maria Martini radunò nella sede arcivescovile di Piazza Fontana una “Agorà”, un pensatoio molto riservato sul tema lacerante e ancora sotterraneo della “corruzione politica” su impulso di un giovane professore di Fisica, Antonio Ballarin Denti, che era pro-tempore il segretario provinciale della Dc. A quel tavolo c’era il fior fiore dei cristiani impegnati non solo nella politica, ma negli enti economici di nomina pubblica: il quadro disegnato era realistico e preoccupante e vennero fuori ipotesi innovative di cambiamento e di radicale correzione. Peccato che (e lo testimonia chi qui scrive, unico giornalista partecipante, ma in quanto credente) quasi tutti gli invitati finissero poi (non pochi ingiustamente e poi assolti nei processi) nel tritacarne giudiziario dell’inchiesta Mani Pulite.
Una prova questa, poco nota, della straordinaria sensibilità del cardinal Martini nel cercare di cogliere nella realtà ecclesiale e cittadina le criticità aperte e di sforzarsi di intravedere le vie d’uscita, non solo per la sua Chiesa ma anche per la città e la sua comunità civile. D’altronde altrettanto riservato e paziente è stato nel corso dei decenni l’incontro e il rapporto con quei gruppi e comunità di “cristiani inquieti” al quale il vescovo, come padre sollecito e attento, testimoniava insieme la volontà di ascolto e la possibilità di restare come fermenti vivi anche dentro e a pieno titolo nella Chiesa-istituzione.
Quando i terroristi delle Brigate Rosse restituirono al cardinale le armi con le quali avevano insanguinato la vita civile, si capì anche simbolicamente che la sua strategia di incontro con ogni genere di “inquieti”, anche i più difficili, ne testimoniava insieme la sostanziale autorevolezza e il ruolo di supplenza alla politica e alla burocratica giustizia terrena che (magari senza volerlo) si era trovato ad esercitare nella fase di eterna transizione e di caduta dell’autorità che questo Paese, e in particolare la sua “capitale morale” andavano vivendo e forse da cui non sono ancora usciti.
Il punto di riferimento e la solida roccia che l’Arcivescovo di Milano venne a rappresentare per l’intera società fu apprezzato e sentito dagli atei e dagli agnostici quasi più dai cattolici organicamente raccolti. Certo, le sue iniziative erano a volte sorprendenti, come la Cattedra per i Non Credenti o le altre infinite forme di dialogo con i laici. Eppure, con la sua figura imponente e maestosa, trasmetteva senza sussiego una fiducia e un rispetto non usuali. La sua capacità di sapersi fare ascoltare dai “lontani” dalla fede nasceva però dal suo confronto quotidiano con la Parola di Dio di cui era stato faticoso maestro: ed era la fonte più sicura, se non l’unica, alla quale continuava ad attingere fin da quando, da affermato biblista, era stato strappato ai suoi studi da un “colpo di genio” del papa polacco e costretto ad “imparare sul campo” a fare il vescovo e il pastore di una diocesi decisiva per la Chiesa e terribilmente impegnativa per le sole risorse umane.
Semmai aveva messo nel conto, da buon gesuita, che il ritrovarsi con il suo prestigio culturale “all’onor del mondo” lo esponeva a facili e ripetute strumentalizzazioni, soprattutto di natura politica. Eppure non è arbitrario supporre che il suo cercare per Milano una forma inedita di una “nuova Gerusalemme” (l’amata terra dove sognava di chiudere la sua esistenza di esegeta e interprete teologico) lo portava a manifestare l’ansia del nuovo, la difficile missione di mettere comunque in contatto il groviglio pulsante di una complicata società contemporanea con i suoi dubbi e le sue sofferenze con l’eternità del suo Dio.
E non è un caso che, quanto era alto e riverente il rispetto del mondo laico, altrettanto era ambivalente e talvolta polemico il rapporto con la complessità quotidiana della sua Chiesa. Che fosse evidente la freddezza o il tacito dissenso nei confronti di molti movimenti organizzati (a cominciare da Comunione e Liberazione, peraltro poco amata – anche se per motivi diversi – dal suo predecessore sulla cattedra di Ambrogio, Giovanni Colombo) non è certo una scoperta recente. Piuttosto, tra i doveri di governo del vescovo, sentiva urgente la necessità di rifondare radicalmente la “macchina” della diocesi e il personale dedicato alla cura d’anime nell’assetto principale e storico dell’organizzazione territoriale.
In questo senso con l’inesausta predicazione e la produzione scritta (dai tantissimi volumi sulla fede cristiana e le sempre incisive Lettere Pastorali) ha formato intere generazioni di consacrati (dai preti alle suore) gettati nel mondo ad annunciare la Parola e insieme a testimoniare il soccorso e l’accoglienza all’umanità da incontrare ogni giorno nella missione evangelica. Un’impronta così forte e così carica di tensione spirituale da far apparire talvolta i “martiniani” come una falange compatta e forse altrettanto chiusa e autoreferenziale di quella prodotta dai movimenti (CL in testa) da cui ci si voleva distinguere.
E forse, troppo spesso, Martini è sembrato, anche nella pubblicistica cattolica (e non solo in quella “laica”) come il vero “altro Papa”: quello cioè che interpretava una “Chiesa alternativa” a quella vaticana e faceva della realtà ambrosiana una “Chiesa acefala”, autosufficiente, e che si bastava da sola a vivere la propria missione in polemica silenziosa e in sostanziale diversità dal magistero di Roma. Eppure sarebbe fare un torto alla ricca e complessa personalità del cardinale (un gigante della cultura e della fede dalle infinite sfaccettature e dalle mai scontate capacità di innovazione) se lo si inscatolasse nel bilancio conclusivo in una etichetta pregiudiziale. Se era ritenuto il “capofila dei progressisti” con qualche profumo di eresia, ne si immiserirebbe la portata e la sua inquietudine religiosa a non sfuggire alle domande inedite e sconvolgenti (non ultima la bioetica) con cui la modernità interpella soprattutto gli uomini dello spirito.
Perché, forse, sfugge al sentire diffuso e al complesso mediatico la sofferta fedeltà richiesta ai Gesuiti, quella cioè del voto speciale di obbedienza “perinde ac cadaver” al primato di Pietro. Una fedeltà magari più tormentata al carisma pubblico di Wojtyla, ma certamente più quieta e serena allo studioso e intellettuale come lui professor Ratzinger. (E non è un caso che nell’ultimo conclave sia stato proprio Martini a persuadere molti cosiddetti progressisti a convergere sull’elezione di Benedetto XVI). Perché, e il cardinale lo sapeva bene, è caratteristica costitutiva della Chiesa ambrosiana, pur nell’orgoglio della sua originalità perfino liturgica, il legame profondo e speciale con il successore pro tempore di Pietro.
In conclusione Carlo Maria Martini è stata una figura troppo grande per essere pianto e salutato soltanto come un semplice principe della Chiesa. La sua eredità spirituale e culturale durerà a lungo prima di venire completamente compresa e metabolizzata. Semmai, rispetto proprio alla vita civile, è stato spesso incompreso perché in realtà era un “presbite”: e cioè così acuto nel guardare lontano, nel futuro, da apparire sconcertante al suo presente. Si è citato qui l’esempio della sensibilità anticipatrice sulla “corruzione politica”, ben prima del ciclone ambiguo di Mani Pulite.

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